A Place for Lovers
Per Roger Ebert (ho detto tutto) è “the most godawful piece of pseudo-romantic slop I’ve ever seen!”, per Charles Champlin “the worst movie I have seen all year and possibly since 1926”. Che un film tragicomico come Amanti (1968) rechi la firma di Vittorio De Sica, è al di là della mia forza di comprensione: ridicola la trama (grande amore consumato in un paio di giorni con passione, spleen e fughe sotto l’incubo di malattia senza scampo per lei, e finale terrificante con suicidio alla Sturm und Drang su Dolomiti. Come De Sica abbia potuto pensare a un Mastroianni suicida, e come Mastroianni si sia potuto prestare alla delirante operazione, è un mistero), sul filo del surrealismo le ambientazioni con Villa Barbaro di Maser trasformata in un Relais & Chateaux, oscena la qualità della recitazione di due padreterni, Mastroianni himself e la Faye Dunaway (all’epoca la donna probabilmente più bella del mondo). Insomma: il disastro completo.
Eppure… Eppure segretamente, confessandolo sottovoce, ogni tanto io vado a rivedermi il dvd di Amanti perché i primi 15 minuti sono di una bellezza sconvolgente. Pura bellezza senza alcun senso. La voce di Ella Fitzgerald in una bellissima canzone di Manuel De Sica, A Place for Lovers (donde il titolo della versione americana); il luxe, calme et volupté della dimora palladiana; i biondi capelli raccolti della Dunaway; i sublimi abiti di Theodora van Runkel, con i colori pastello e quella castigatezza del taglio fine Sixties che è più erotica di ogni esibizione; l’aura haute bourgeoisie dell’epoca più felice nella storia dell’umanità, subito dopo il perbenismo anni Cinquanta e subito prima dell’orrore sessantottardo; la fotografia divina, ripeto divina di Pasqualino De Santis, con i colori leggermente saturi, la sgranatura che dà consistenza e profondità all’immagine, il senso di uno spazio elegante e geometrico nel quale abitano solo sensazioni preziose, magari lievemente tristi.
E, soprattutto, il fatto che quel mondo lì, quella facies del mondo com’era allora, io ho fatto in tempo, bambino piccolissimo, a conoscerli. Quei tailleurs, quelle capigliature, quelle forme delle automobili, quelle divise dei camerieri, quel senso del tempo così diverso da oggi, vivono in un angolo della mia memoria come un legato struggente e inalienabile. Io ricordo la qualità dell’aria dei primissimi anni Settanta: era infinitamente diversa: più nebbiosa e fumosa nelle città (a Milano la scomparsa della nebbia dovrebbe essere solennizzata con un giorno all’anno di lutto cittadino: Milano oggi è una povera superstite snebbiata della sontuosa, misteriosa, magica Milano della nebbia che ricordo io) e più aerea, carica di vento e di colore, più tersa, più stagliata sui laghi, nelle campagne, sui rifugi alpini. Quell’azzurro non c’è più, non so perché ma è così; quella solennità dei cipressi, quel muschio vivo sulle antiche statue, quel profumo della terra bagnata nei boschi, non ci sono più. Io li custodisco in un angolo della memoria, li ho accumulati senza saperlo nei primi 5-6 anni di vita ma so cosa sono, come sono: so che oggi in ogni giornata ventosa e azzurra io cerco quel vento e quell‘azzurro scomparsi; quella luce smagliante; quel brivido del fogliame che era allora, come tuttora è, la forma più alta della mia felicità.
I primi 10-12 minuti di quel brutto film, Amanti. Lì c’è tutto.