Il colore rosa
Guardo Scene di caccia in Bassa Baviera, il capolavoro di Peter Fleischmann (1969). Siamo in un paesino sperduto dove si lavorano i campi, si beve birra al baretto, si mungono le mucche, si va a messa alla domenica, e dove ci si odia. Tutti, ci si odia. L’invidia, la gelosia, la grettezza, la maldicenza, la piccineria, il rancore, il risentimento, la diffidenza, sono la sostanza di ogni rapporto umano. Robert Musil definì la scuola militare dove studiò in gioventù, a Mährisch-Weißkirchen, “das Arschloch des Teufels”. Ecco, anche quel paesino in Bassa Baviera merita la stessa definizione.
Accomunati dall’odio, i personaggi parlano lo stesso linguaggio. L’odio, in uno strano modo, dà loro un’identità comunitaria, li stringe in un vincolo, li protegge dalla vita che è di fuori, e di cui non avranno mai il minimo sentore. Quando Abram, un ragazzo di vent’anni, ritorna nel paesino dopo un periodo passato in città (in prigione, si dice), si scatena e si sviluppa con una violenza mostruosa l’offensiva contro il diverso. Si comincia, come in Beaumarchais, da una calunnietta: in città, Abram è stato visto frequentare un bar dove vanno solo gli uomini. Abram è una femminuccia, un omosessuale, un pervertito. Le donne lo prendono in giro, la madre lo ripudia, gli uomini oscillano fra l’insulto e la canzonatura. Abram diviene il reietto, l’escluso, il vessato, l’accusato, l’indegno di compassione, l’indegno, persino, di quel tipo di odio che accomuna tutti. L’odio per lui è di un altro tipo, più velenoso, più letale: Abram, vittima di questa lenta e soffocante violenza quotidiana, passerà lui stesso, inevitabilmente, alla violenza.
Roma, 2012. Non la Bassa Baviera, non “das Arschloch des Teufels”, non un 1969 indietro di cent’anni rispetto al resto del mondo. Una grande, moderna metropoli multietnica e multiculturale, scintillante, meravigliosa. E non è cambiato niente, assolutamente niente. Un ragazzo viene escluso, dileggiato, spinto a togliersi di mezzo perché porta i pantaloni rosa, perché è un diverso. Non lo difende nessuno. Davide, così si chiama, si impicca pochi giorni fa.
Io vivo appartato e in politica sto fra l’anarchia e la rassegnazione. Ma non avrò pace finché in questo Paese la discriminazione contro i diversi continuerà ad avere campo e diritto di esistere. Non è (solo) questione di leggi: è questione di ideologia, è questione di premesse culturali. Questo è un Paese dove su un sito chiamato Pontifex si possono pubblicare articoli chiedendosi se l’omofobia sia veramente reato, e leggere frasi come quella di un don Marcello Stanzione che qui riporto: “La censura sociale applicata contro chiunque manifesti il suo rifiuto per il vizio-contronatura, è violenta e immediata. L’atteggiamento di tutti coloro che professano la legge naturale, cattolici o non, è sempre più cauto e misurato nelle espressioni”, “Esiste una lobby omosessualista annidata ovunque e pronta a scatenare un linciaggio mediatico contro coloro che la ostacolano. Sempre e ovunque il loro nemico numero uno è la Chiesa cattolica”.
“Vizio-contronatura”? “Legge naturale”? Cosa?! La violenza diretta contro gli omosessuali è ripugnante. Ma ancora e molto più subdola e pericolosa è la cultura che è premessa di quella violenza, e in particolare la cultura (politica e non) che privilegia e favorisce alcuni modi di esistere sopra altri. Io non darò mai il mio voto a chi, come Pierferdinando Casini, si schiera “in difesa della famiglia”, né ad alcuna coalizione che lo accolga. “In difesa della famiglia” è per me la premessa dell’esclusione, della separazione, della perdita di diritti di chi la famiglia non la vuole proprio, e sceglie altri stili di vita. “In difesa della famiglia”: e chi l’ha detto? E’ questa l’invisibile ma ostinata matrice dell’intolleranza di cui il ragazzo di Roma è stato vittima. Perché questo Stato, tenuto in ostaggio dalla Chiesa Cattolica (che ha tantissimi pregi e fa tantissimo bene in mille situazioni, lo devo riconoscere, ma che ha una visione antropologica discendente da un criterio di fede, e vuole imporla nelle leggi e nei costumi a chi tale fede non ha), non riconosce che gli omosessuali possano unirsi come in tutti i Paesi civili? Perché non solo non permette l’eutanasia, alla quale io sono completamente favorevole, ma mercanteggia con il Vaticano intorno all’accanimento terapeutico? Perché mai ci sono commissioni di bioetica (ancora una volta tenute in mano da Oltretevere) che devono dire cosa è bene e cosa è male per me? L’unico fondamento razionale della morale resta per me l’imperativo categorico kantiano, “Agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni divenga universale”, “Agisci in modo da trattare l’uomo così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo”, “Agisci in modo che la tua volontà possa istituire una legislazione universale”. Io detesto l’anti-clericalismo, detesto chi fa della facile e volgare ironia sul Papa, detesto chi contro la Chiesa Cattolica accumula solo pregiudizi. Io rispetto il mio nemico, e su queste decisive questioni antropologiche (“legge naturale”, diritti degli omosessuali, diritti delle coppie di fatto, libertà di scegliere se morire o rantolare all’infinito) la Chiesa è il mio nemico.
Qualsiasi cultura che fondi una politica tale da riconoscere privilegi a uno stile di vita piuttosto che a un altro (“la famiglia va sostenuta”), è per ciò stesso e con ciò stesso una cultura intollerante: ed è la scaturigine nascosta di una violenza di cui gli stessi bulli o bullisti che hanno vessato Davide sono vittime: perché recano su di sé, per ignoranza, qualcosa che è più grande di loro, l’intolleranza verso chi è diverso. Ricordo uno splendido saggio di Cioran sugli ebrei, intitolato Un popolo di diversi. Essere diversi è ciò che ci rende uomini. Tutti siamo diversi: questa è la nostra grande occasione, la diversità, il poter essere qualcuno e fare qualcosa che è unico, insostitubile, solo nostro e non rimpiazzabile dagli altri.