
La nuit américaine
Effetto notte: non lo vedevo da più di dieci anni, l’ho sempre considerato un esercizio di virtuosismo e (ovviamente) un grande gesto d’amore verso il cinema; ma non uno dei Truffaut più profondi e intensi. Rivisto stasera, mi sembra uno dei film più capaci, in ogni tempo, di dire la lieve, insensata, commovente, dolorosa, incantevole complessità della vita – e di dirla attraverso la specie delle relazioni, dove ciascuno dei personaggi (ciascuno di noi, dunque) innesca reazioni e controreazioni che danno mobilità agli eventi, alle categorie psicologiche, alle intermittenze del cuore. Effetto notte combina ogni cosa in una crepitazione struggente e sorridente; e, in quanto film su un film, invera quel che si dice sul set e che vale per qualsiasi opera d’arte: è la stessa cosa della vita, ma esplicata attraverso l’armonia della forma (che è ciò che la rende universale). E tuttavia quell’armonia non sarebbe possibile (non sarebbe conquistata, faticata, secreta strenuamente) senza tutte le contraddizioni e le difficoltà disarmoniche della vita stessa, che dell’opera d’arte è scaturigine e insieme destinazione.
Questo equilibrio così fragile è ciò che più mi ha ora commosso. Ogni cosa perfetta nasce dal dolore e dall’imperfezione, che a quella tendono. L’effimera trepidazione della vita cerca la permanenza dell’opera d’arte, attraverso le più paradossali combinazioni e la sapiente opera del caso; e l’opera d’arte “torna indietro” alla vita con un sorriso affettuoso verso ciò che è troppo umano – lì si discioglie e anch’essa scorre, alta ed enigmatica, verso le domande inevase.