Francesco Maria Colombo

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L'usignolo stonato - Francesco Maria Colombo
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L’usignolo stonato

Florence Foster Jenkins… quando l’ho sentita nominare la prima volta? Sarà stato trent’anni fa, quando non c’era Wikipedia, non c’era Google, non c’era YouTube. Qualcuno mi allungò un disco, c’era in copertina questa donna grassa e paludata da angelo, e quel che si sentiva non si poteva credere. La voce più stonata della storia, così gloriosamente antimusicale da risultare persino affascinante. E infatti, scopersi, c’era tutta una categoria di melomani che amavano questa Foster Jenkins. Ma chi era? Cosa c’era dietro? Sapevo che aveva inciso qualche aria, che fosse una protagonista delle cronache mondane fino al 1944, l’anno in cui morì, e che avesse persino cantato a Carnegie Hall. L’unica persona che l’avesse vista e conosciuta era Gian Carlo Menotti, e quando glie ne chiesi mi rispose: «Era l’idolo di tutta la froceria di New York» (sento ancora il suo timbro di voce che dice «New York», con la «o» chiusissima di Park Avenue). «Era… camp». E Gian Carlo odiava il camp.

Adesso Stephen Frears ha preso la storia di questa donna ricchissima, generosa, infantile e debole di mente, circondata da un caravanserraglio di ammiratori e devoti veri o prezzolati (cantava comprandosi la sala, ovviamente, e distribuendo oculatamente gli inviti), e ne ha fatto un film che ha un involucro mélo, ma che dentro quell’involucro contiene il ritratto del dolore, di una sofferenza che, per essere ridicola, non è meno profonda, vera, universale. Florence Foster Jenkins è della razza di quelli che amano non riamati, che si sorreggono sull’apparenza e in fondo lo sanno, eppure finiscono per trovare dignità nell’averci provato, nell’aver fatto il salto davanti a tutti, e non importa se l’esito è un capitombolo. Il film che porta il suo nome, oltre ad essere magnifico per fattura fin dai meravigliosi titoli di testa (l’unica nota stonatissima è la caricatura di un Toscanini ridotto a batter cassa), è uno sguardo pieno di malinconia, di pietà, di condivisa amarezza, di interrogazione su quale sia il senso ultimo della vita di tutti. Se si può paragonare a qualcosa, è alle fotografie di Diane Arbus dove vengono colti i freaks, gli outsider, quelli la cui è vita è un perché senza risposta, le foto dove l’occhio è lo strumento della meraviglia e della compassione.

Tutto questo non si sarebbe potuto inverare senza la più grande attrice vivente nel ruolo della protagonista. La più grande, punto. E senza un Hugh Grant che finalmente entra con questa parte tra i grandi attori (ed è anche molto più bello, con l’età). E senza un magnifico Simon Helberg, che fa l’accompagnatore al piano della diva stonata. Chissà perché Frears ha scelto Florence Foster Jenkins per dirci qualcosa che va oltre il virtuosismo di tanti suoi film, e che almeno in una scena arriva alle lande luminose della pura bellezza. E’ quando Florence visita l’accompagnatore nel suo monolocale, gli lava i piatti, e poi si siede al pianoforte e tenta qualche nota del Preludio in mi minore di Chopin, quello che sanno suonare anche quelli che non sanno suonare, ma lei suona solo la melodia, con la destra, e la mano sinistra la tiene lui. In quel momento non c’è più lo show, il camp, il glamour, la mondanità, il danaro. C’è solo il mistero per il quale alla musica, più che ad ogni altra arte, si possa rivolgere un infinito, inesplicabile, doloroso, insensato, sconfitto unrequited love: alla musica come alla vita.