Francesco Maria Colombo

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Il marziano - Francesco Maria Colombo
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Il marziano

Allora: premessa: non faccio recensioni. Se però dovessi farla scriverei più o meno così:

Per prima cosa, i fatti. I fatti sono che al rientro delle vacanze arriva a Milano l’orchestra dell’Opera di Stato Bavarese, un’ottima orchestra che nessuno ha mai messo fra le prime 30 del mondo (io sì, ma per affetto: è l’orchestra con la quale ho sentito, da ragazzo, tanti Rosenkavalier, Fledermaus, Traviata e vari concerti diretti da Kleiber, l’orchestra con la quale ho sentito Jochum, l’orchestra del mio primo Ring, del mio primo Don Giovanni, del mio primo Fidelio…). Il direttore è famosissimo perché l’hanno nominato capo dei Berliner Philharmoniker, ma quasi nessuno l’ha mai visto, anche perché è l’antitesi del mercato musicale: non è bello, non è glamorous, non dà interviste, non gli fanno feste di compleanno perché forse pasticcerebbe a tagliare la torta, non ha nemmeno un sito internet. Insomma, stiamo a vedere. In repertorio, un evergreen tedesco come i Maestri Cantori, più gli amati Vier letzte Lieder con la grande Diana Damrau, più… la Sinfonia Domestica di Strauss, il più sfigato dei suoi poemi sinfonici, quello che nessuno conosce e che si ascolta sperando che prima o poi finisca. Esito: vien giù il teatro. Letteralmente. Con Kirill Petrenko che deve tornare a prendere gli applausi quando l’orchestra è già rientrata.

Allora perché è successo tutto ciò? Molto semplicemente siamo di fronte a un’altra categoria, quella dove talento, carisma, estro, disciplina, fantasia, entusiasmo, dominio, intelligenza, cognizione dello stile, si fondono in un insieme così stretto e irrevocabile da far sì che la musica non sia più una cosa da ascoltare, ma da vivere. Vivere, dunque, con il cuore, l’intelligenza e anche le viscere e anche l’apparato riproduttivo, che quasi sempre durante i concerti dorme. A me è bastato il primo accordo: so cosa vuol dire il do maggiore dei Maestri cantori (ahimé, l’ho diretto più volte, in qualche modo). E’ come svellere una montagna: deve suonare potente, rotondo, affermativo, ma anche elegante ed equilibratissimo, se no diventa volgare. Quell’accordo, con Petrenko, era sbalorditivo per il peso, l’importanza, la pienezza, la distribuzione perfetta dei bilanciamenti strumentali: solo che quando ce ne siamo accorti lui era già avanti, era già a fraseggiare la frase dopo, sempre quella dopo, che arrivava così alta, ampia, piena di aria e di vita, e poi quella dopo ancora, e così via, ed era come se la terra ci mancasse sotto i piedi e tutti noi (compresi Wagner e Strauss, solitamente assisi nella Walhalla) fossimo in volo, staccati dal suolo. Io una sensazione così l’ho provata solo un’altra volta in vita, con Carlos Kleiber. Kleiber era sempre una frase avanti, e rincorrerlo voleva dire avere il cuore in gola.  Soprattutto il giovane Kleiber. Quello più anziano ogni tanto tornava indietro, e ci faceva piangere di malinconia.

Vitalismo? Certamente, ma fuso in maniera meravigliosa con la delicatezza del gusto, la risoluzione originale dei dettagli, la fantasia incredibile dei piani sonori e la capacità di ottenerli con il più semplice dei gesti. E con l’intelligenza. E qui veniamo ai Vier letzte Lieder, che la Damrau, oggi di gran lunga il miglior soprano vivente, canta con una raffinatezza e una commozione irreali. Nei Vier letzte Lieder succede sempre la stessa cosa: ci sono due categorie stilistiche immancabili, e riguardano il colore orchestrale e il fraseggio. Una è l’alone; l’altra è la spirale. Si ascoltino tutte le grandi versioni, dalla Della Casa con Boehm (la più autentica) alla Janowitz con Karajan (la più trasfigurata), dalla Schwarzkopf con Szell (la più chic) alla Norman con Masur (la più sensuale): l’orchestra è sempre un alone intorno alla voce: un’aureola di suono luminoso, un riverbero crepuscolare, una specie di seta dorata nella quale la voce affonda per poi librarsi, conservando l’aura di una timbrica soffice e fatata. E le frasi, sempre, suonano spiraloidi, sinuose, arrotondate, fanno fluffff come code di gattoni che facciano le fusa, modanate a disdegno di ogni angolo. Con Petrenko tutto questo non esisteva, e per questo a me è sembrato di ascoltare una composizione nuova. L’alone non c’era, la coda del gattone non c’era. C’erano linee musicali di estrema finezza, levità e morbidezza, ma integrate con la voce sullo stesso piano, con lei dialoganti, a lei richiedenti qualcosa in più; c’era una timbrica mai così pulita senza che il nitore vietasse l’incanto; e c’era una percezione della verticalità della scrittura (la strutturazione dell’armonia, che è sempre il parametro pià trascurato in Strauss), chiarissima, inequivocabile. Il risultato era molta retorica in meno (questa mirabile pagina soffre moltissimo delle buone esecuzioni: ne sopporta solamente di sublimi), e molti aspetti musicali ritrovati, riscoperti.

Poi c’è stata la Domestica, sulla quale potrei dire ancora tante altre cose, un’esecuzione rivelatrice di mille aspetti mai immaginati. Ma sarei ancora più noioso e lungo di quel che già non sia. Alla fine è la solita porca legge della musica: “A chi ha sarà dato”. E’ ingiusto che esistano nature musicali come quella di Kirill Petrenko, è ingiusto che mille altri facciano una fatica boia per tutta la vita, poi arriva questo qui e in cinque minuti ti fa capire cos’è la gioia della musica, l’euforia della musica, l’assurda novità della musica, la vitalità della musica. E’ una bella ingiustizia. Fuori dal teatro, mentre si parlava fra amici, eravamo tutti in cerca di paragoni per capire quello che ci era successo: qualcuno parlava di LSD, a me basta ricordare come si usciva dai concerti di Carlos Kleiber.

(Foto per gentile concessione dell’Ufficio Stampa della Scala)