La voce avvelenata
La storia è molto simile a quella di Florence Foster Jenkins, di cui avevo parlato qualche giorno fa, ma il film non potrebbe essere più diverso. Questo si chiama Marguerite e ha per protagonista la grandissima Catherine Frot. Siamo negli anni Venti. In un castellotto fuori Parigi la Baronessa Dumont (il marito ha portato il titolo, lei i capitali) dà un concerto privato per gli orfani di guerra. Tutti la applaudono ma lei, che non se ne rende conto, canta in maniera disastrosa: al suo confronto persino Florence Foster Jenkins è un usignolo. Un gruppo di ragazzi dell’avanguardia giornalistica e artistica, un po’ per celia un po’ per non morire, decide di farne una cause celèbre e la spinge a prendere lezioni, a entrare nel sottobosco della «festa mobile» (come Hemingway chiamava Parigi), di farla esibire davanti a un pubblico vero. La povera innocente percorrerà tutto il cammino del ridicolo, senza che nessuno abbia il coraggio di dirle la verità, se non che, a un certo punto…
Florence Foster Jenkins è un film su una passione non corrisposta, la musica, vissuta con gioia, panache, grinta americana e sprezzo del pericolo. Marguerite è solo in apparenza un film sulla stessa passione non corrisposta: è in realtà un film sui veleni della psiche, sulle infìde paure, sull’ipocrisia dei ruoli sociali, sui piccoli ricatti di chi la sfanga a malapena, su chi, non veduto, tiene le redini del male. In Florence Foster Jenkins c’è il dolore, ma non c’è il male. E in Marguerite non c’è lo stesso tipo di dolore, c’è un dolore più sordo, più subdolo e maligno: laddove il male percorre ogni inquadratura, anche quelle ricche di un efficace humor nero. E’ un male francese, raccontato con lo stesso inchiostro di Mauriac e della Némirovsky.
Non è un film perfetto: la sceneggiatura fa acqua da tutte le parti e si arriva alla fine senza aver capito il ruolo di alcuni personaggi, che compaiono e scompaiono alla bell’e meglio. Ma è un film estremamente sottile, un film che lascia non la sofferenza di Florence ma una specie di fastidio, un malessere serpeggiante e freddo. E’ fotografato in colori desaturi, raffinatissimi. I costumi e le scene sono mirabili, e mille tocchi di regìa dicono la finezza di Xavier Giannoli, che lo firma. Si ascolti la musica dei titoli di coda fino alla fine: è la musica più bella mai composta.