Francesco Maria Colombo

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Perché "Amour" non mi piace? - Francesco Maria Colombo
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Perché “Amour” non mi piace?

Fra amici, la classica domanda: cos’hai visto di recente? il più bel film degli ultimi tempi? cosa vale la pena di andare a vedere? Otto su dieci, la risposta è Amour di Haneke. Come la Nutella, Amour piace a tutti, cuori semplici e intellettuali, gente che va al cinema a caso e cinefili accaniti. Ma a me la Nutella non piace (a me piace il taglio di limone al selz, con qualche lampone sbriciolato nel bicchiere. Lo faranno ancora?) e non mi piace nemmeno Amour. Perché?

Perché Amour è il film più blando di un regista che amo molto, Michael Haneke. Che di solito è un regista duro, rabbioso, di elegante freddezza (uno così freddo che il termine eleganza diviene inelegante), e che ogni volta mi spiazza:memorabilmente nei primi film in Germania, nella Pianiste e nel meraviglioso Das weiße Band (oddìo, meraviglioso fin che non si vedano certi film di Fleischmann: a quel punto il meraviglioso si ridimensiona). Haneke mi piace per tanti motivi: uno è che assomiglia di volto a un attore grandioso come Christopher Lee. Un altro è perché fa recitare spesso Isabelle Huppert. Il terzo è perché non usa la metafora. Quasi mai. In tutte le situazioni dove sarebbe facile scivolarci, egli fa prevalere la molteplicità di senso di ciò che è rispetto all’univocità di ciò che significa (la distinzione non è mia, è di Nietzsche). Una cosa o l’altra, l’immagine di una bicicletta o di un’arma o del portone di un vecchio palazzo viennese, vivono nei suoi film come forerunners dell’inesplicabilità, dell’insensatezza: non come segnali di uno stato psicologico o di una possibile decifrazione del reale.

Il reale di Amour, che a tutta prima è il più reale possibile, e cioè il frequentissimo caso di una vecchia coppia in cui uno dei due si ammala e muore, è invece continuamente reinterpretato in chiavi di lettura soggettive. Emile Zola l’avrebbe odiato. La camera mostra lo scivolamento nel nulla di una vecchia pianista, seguendo abilmente un ritmo lento che è quello di tutti i vecchi: ma questo scivolamento è sempre filtrato dalla soggettività della percezione: sempre reinterpretato prospetticamente: attraverso gli occhi del marito, quelli della figlia, del genero, dell’infermiera; e soprattutto, ahimé, i nostri, che rintracciano in ogni situazione uno stato emotivo in cui identificarci. Questa identificazione emotiva è il segreto del successo del film: che infatti tocca e commuove. Ma io non voglio vedere un film di Haneke per commuovermi. Mi sta bene Vincent Minnelli. Voglio vedere un film di Haneke perché non c’è un perché a tutte le cose che ci fanno domandare qual sia il perché.

Bien sûr, avendo a disposizione tre attori come Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva e Isabelle Huppert è impossibile fare un film meno che magnifico. Ma non è un film di Haneke. Non è da Haneke far entrare un piccione in una casa dove c’è un’inferma allo stadio terminale, e dopo un po’ farlo entrare ancora: con il marito ottuagenario che non sa cosa fare, cerca di catturarlo e non riesce, e non si sa se dibatta più lui o più il piccione. Nove su dieci degli amici con cui ne ho parlato hanno indicato quella del piccione come la scena più commovente del film. Per me invece, che non amo la Nutella, è una débâcle stilistica: e siccome amo il cinema di Haneke la mia reazione a una metafora tanto sesquipedale è l’imbarazzo.

“Vous voulez de la merde? La voilà” diceva Bizet dei couplets di Escamillo nella Carmen. Ho persino il dubbio che Haneke si sia divertito a prendere al lazo i suoi spettatori. Il finale truce-mélo di Amour, con il dettaglio insopportabile della lunga lettera di congedo del protagonista (fuggito chissà dove? a quasi novant’anni…) dopo l’uso improprio di un cuscino, è talmente anti-hanekeiano da farmi pensare a un’operazione mistificatoria a tavolino. Se Amour dovesse vincere l’Oscar, il cerchio si chiuderebbe.

La tragedia di Amour, a parte grazie al Cielo il finale truce-mélo, io l’ho vissuta nei dettagli, in tutti i dettagli minuscoli: perché è la storia di una lei in una coppia abbiente e di livello sociale piuttosto alto, che vive un lungo decadimento; e io l’ho vissuta al maschile, per 7 anni, attraverso la malattia e la morte, tre mesi fa, di mio padre. Il letto anti-decubito che si vede nel film, è esattamente lo stesso, forma, colore, marca, dove se ne è andato mio padre. E così mille altri dettagli. La trappola emotiva era dunque ancor più forte per uno spettatore come me: eppure la Nutella non mi piace, e Amour è un film che gronda Nutella.

Stasera ho visto invece un film dove c’è molta meno perizia, molto più prevedibilità nella costruzione a flashback della storia, qualche simbolo di troppo (il colore rosso, l’inutile scena con i pomodori all’inizio), e però anche qui attori bravissimi: Tilda Swinton e John Reilly. Si chiama We Need to Talk About Kevin ed è una storia davvero implacabile e inesplicabile, terribile e priva di retorica: un figlio che cresce semi-autistico in una famiglia dove di amour ce ne è troppo o troppo poco, e che è destinato a soffrire il male e a compiere il male. Tutto è vero, credibile, anti-metaforico, non c’è bisogno di piccioni per sapere che ci si dibatte in un problema al quale non c’è soluzione (mentre nel film di Haneke c’è: fin dalla prima scena sappiamo che c’è la via d’uscita: e questo alza il tasso di glucosio della Nutella). We Need to Talk About Kevin mi ha colpito molto di più.