
Verso Nord
Il titolo del libro è Nordmeer, Mare del Nord: ma il mare del Nord non esiste. E’ un’idea, un’astrazione, un punto di fuga che richiama mille cose, la suggestione della luce, che può durare tutto il giorno o scomparire per mesi; il freddo, il colore del ghiaccio, il lavoro spietato e difficile (i più pericolosi, Stalin li mandava nelle colonie artiche, a scavare il carbone); ma soprattutto l’essere, il Nord, un avamposto della grande incognita, una proda liminare del grande enigma, il tratto più vicino alla purezza e al nulla.
E siccome il Nord, il freddo, le tinte blu, la vastità silenziosa della notte sono tutte cose che io amo, ho sempre cercato libri fotografici che mi dessero quell’idea, forse utopica, del punto di fuga. Le più belle fotografie del mondo dei ghiacci sono sicuramente quelle di Herbert Ponting, che seguì Scott nella tragica missione al Polo Sud: ma che sia Sud c’è qualcosa che lo tradisce: la monumentalità dei cubi di ghiaccio, il gioco fastoso delle stalattiti; e soprattutto la luce ampia, augusta. Ponting fotografa i ghiacci mentre la luce batte sulle superfici e le smalta lussuosamente. Il mare del Nord, questa impossibile idea, è ancora un’altra cosa.
L’ho ritrovata adesso in Nordmeer (2006), il libro di un fotografo della Magnum, Gueorgui Pinkhassov, russo di nascita e francese di adozione, come la traslitterazione suggerisce. Pinkhassov è andato per otto volte verso la stella polare, e ha raccontato quel che ha visto in un modo che da un lato è un esempio classico della narrazione in immagini; dall’altro è molto di più, la ricerca, o la proiezione di un’idealità e di un modello estetico, o, più precisamente, drammaturgico.
La narrazione tocca la vita dell’uomo, le luci calde dei taxi in un villaggio norvegese dove camminare è impossibile, gli interni colorati e rumorosi delle case nella regione di Yamal-Nenets, in Russia, le carcasse di otaria dietro lo steccato di un parcheggio in Groenlandia, e naturalmente la vita durissima sui pescherecci, dalla Norvegia al Canada. Ciò che fa scattare la dimensione drammaturgica, come se la vita dell’uomo non fosse l’oggetto di una documentazione ma un ruolo sulla scena di qualcosa di più sgomentante, è la luce, che Pinkhassov insegue e domina in una varietà e sensibilità di declinazioni stupefacenti. Possono essere i fili della corrente di un villaggio canadese, o il biancore delle croci di un vecchio cimitero artico, o i banconi di ghiaccio alla deriva senza un dove, a Disko Bay in Groenlandia: la luce è l’elemento straniante, la reinterpretazione, probabilmente la causa finale di questi scatti. Le foto si possono ritrovare nel sito della Magnum, ma il libro è un’altra cosa.