Per amore di Olivia
Indignation di James Schamus, uscito da poco e accolto da recensioni generalmente ottime, è la prova che i romanzi di Philip Roth perdono moltissimo una volta trasferiti nei tempi del cinema: il ritmo, che nella prosa sostiene tempi lunghi di attenzione grazie alla nervosità e alla rabbiosità della scrittura, diventa sciapo; gli accadimenti, che nella prosa sono riscattati dal mordente della parola, che li volge in archetipi, diventano episodici; i caratteri, che la prosa fa shakespeariani, sembrano dagherrotipi sullo schermo. E’ accaduto sempre così, con la parziale eccezione di Elegy della Coixet, tratto da The Dying Animal: ma lì c’erano Ben Kinglsey e Penélope Cruz, e questo aiuta.
Per due ore assistiamo all’incontro tra due ragazzi molto diversi all’interno di un college dell’Ohio, 1951. Uno è di famiglia modesta, ebreo, dotatissimo e arrogante; l’altra è una wasp bionda, bellissima, figlia di genitori separati, ha il polso percorso da una profonda cicatrice, e la prima sera che esce con un ragazzo gli dedica un blowjob. Tutto qua, differenze di classe, di abitudini, scontro con le istituzioni, la scuola, la famiglia, un non-finale che non dice niente: soprattutto pensando al finale del romanzo, che è di una densità emotiva insostenibile.
Che peccato, una storia di passione avversata e niente più, quando invece si tratta del romanzo più doloroso di Philip Roth, di un cantico d’amore struggente per quelle donne che recano su di sé le stimmate della sofferenza, e che sprigionano sugli altri tanta luce quanto profondo è il buio che abita dentro di loro. Olivia Hutton è l’unica donna fra le ragazzine del campus, nessuna è seduttiva come lei, sessualmente spregiudicata come lei, traboccante di vita come lei, intelligente come lei, diversa come lei. Sicuramente Roth ha riguardato all’indietro e ha offerto un tributo a qualche sconosciuta tedofora di quello smalto, di quella vernice scintillante che effondono le donne così fatte, e che è spesso la facies esteriore della malattia maniaco-depressiva. E anch’io, quando ho letto Indignation, ho riguardato indietro e ho visto incarnarsi in Olivia Hutton tante donne della mia vita, le più folli, quelle che si tagliano per dar voce al dolore, quelle che vivono con grazia il proprio disequilibrio, quelle che hanno il tentativo di suicidio e il ricovero coatto nel carnet: e di solito sono le più geniali, le più accese, le più irresistibili. Dico “tante donne” perché ho sempre avuto un debole per loro, e perché per tanta parte della mia vita (ora, per fortuna, non più) abbiamo parlato lo stesso tipo di linguaggio. Un linguaggio che al filmetto testé uscito è completamente estraneo.