Astapovo
Astapovo, Russia, provincia di Lipetsk, coordinate 53° 45′ 45″ Nord, 38° 38′ 39″ Est, è un luogo in the middle of nowhere fra Mosca e Volgograd. Un paese come milioni di altri, nel quale non era mai accaduto niente fino a una certa settimana del 1910; e nel quale, dopo la settimana fatidica, non è più accaduto, di nuovo, niente. La settimana cominciò il 31 ottobre, di sera, alla stazione dei treni, quando da un vagone di terza classe scese un uomo vecchissimo (avere 82 anni cent’anni fa era come averne 92 oggi), con una lunga barba, debilitato dalla polmonite, impossibilitato a continuare il viaggio. Ad Astapovo non c’erano alberghi, non c’era nemmeno l’ospedale. Gli fu dato ricetto nella piccola casa del capostazione, dove rimase fra alti e bassi fino al 7 novembre, quando morì. Dopo lo zar, era l’uomo più celebre e venerato in tutte le Russie.
Al momento di fuggire, di notte (con la figlia, un’amica della figlia e il medico personale), dalla tenuta di Jasnaja Poljana, Tolstoj non sapeva di essere tenuto d’occhio dalla polizia: non sapeva di essere seguito, e che il suo ultimo, segreto viaggio si sarebbe trasformato in uno show in diretta, forse il primo grande esempio di macabro reality show, di morte minuto per minuto, nella storia occidentale. Ricoverato lo scrittore nella casetta del capostazione di Astapovo, ci volle un attimo perché arrivasse una folla incredibile di gente che voleva sapere, intervenire, mettere il becco, dire la sua, informarsi e informare. Unita al resto del mondo da fili sottilissimi (i fili del telegrafo), Astapovo divenne una specie di satellite che irradiava segnali deboli e lontani, amplificati dai giornali di San Pietroburgo, Parigi, Roma, New York.
I giornalisti giungevano ad Astapovo, si sistemavano come potevano in alloggi improvvisati, in vagoni ferroviari messi a disposizione: chiedevano più rubli alle redazioni, strappavano le notizie ai colleghi. Arrivarono i dottori, per il consulto: da sedi sempre più importanti, fino al luminare di Mosca. Si approntavano clisteri, si misurava il polso dell’infermo, si lavava il vecchio corpo che sudava. I briefing si susseguivano: la salute del Conte Tolstoj veniva oscillografata istante per istante. Arrivarono gli altri figli, chi da Parigi. Arrivò la moglie, dalla quale era scappato: devota e assillante, gelosa e dissennata: per prudenza, non le permisero di raggiungere il capezzale fino all’ultima ora, quando il marito era già in stato d’incoscienza. Arrivarono i notai, la questione del testamento era ancora aperta (e sarebbe rimasta aperta ancora a lungo, dopo la morte del Conte). Arrivarono i pope, la Chiesa ortodossa si muoveva per riportare in seno il figlio fuggiasco, già scomunicato come anarchico, per strappargli un ultimo rantolo di riconciliazione. Arrivò l’esercito, perché si temevano tumulti. Arrivarono adepti del tolstoismo, disegnatori, poeti dell’ultima ora, animulae vagulae blandulae, mitomani, curiosi, perdigiorno. Si scattarono centinaia di foto, si girarono brevi film (che oggi si possono vedere su YouTube). Dove si lavava tutta questa gente? Si lavava? Chi faceva da mangiare? Come dormivano, allogati alla bell’e meglio sui treni fermi?
Oggi sappiamo quasi tutto. Il libro di Vladimir Pozner Tolstoj è morto, uscito nel 1935 in Francia e un paio d’anni fa tradotto per Adelphi, registra come una stenografia il reality show di Astapovo, istante per istante. Nessuna narrazione, nessuna prospettiva dell’io narrante che guidi il percorso della storia: il libro è fatto di dispacci, comunicazioni telegrafiche, bollettini medici, interviste, cronache giornalistiche. Incollati uno dopo l’altro, come in un album di ritagli da riviste e giornali. A inframmezzare il reportage sono brani tratti dai diari di Tolstoj, della Contessa Sof’ja Andreevna, dal loro epistolario, da altre testimonianze biografiche. Emerge il rapporto conflittuale, possessivo, esasperante, eppure fortissimamente fondato, fra Tolstoj e la moglie: la contraddizione, in lui, fra una sessualità vorace e devastante, e la dottrina della castità propugnata negli ultimi anni, sino al fanatismo. Non so se sia “un bel libro”, ma per chi sia interessato a queste cose è da leggere.
Intanto ho visto il film The Last Station (la ridicola usanza italiana di lasciare i titoli in inglese, ma di far doppiare i film perché nessuno li saprebbe seguire in originale!). Ultimi mesi di vita di Tolstoj, fuga dalla moglie, conflitti sul testamento, stazioncina di Astapovo, clisteri e tutto, morte del grande. Un film così così, che io mi sono rovinato guardandolo in inglese, perché la recitazione di Helen Mirren (la Contessa Sof’ja Andreevna) è così assurdamente british da rendere ogni cosa ridicola. Qualche betulla a parte, non ci sfiora mai il pensiero di essere in Russia. Ambientazione, dialoghi, inflessioni, e soprattutto la dizione oxoniense della Mirren, spostano ogni cosa nella brughiera inglese: sicché quando compare un pope sembra un alieno arrivato da Marte. Inoltre ci sono errori inspiegabili: il vestire tutti i personaggi arrivati ad Astapovo in modo leggero, quando si era invece ai primi di novembre, pioveva e faceva freddo; e il mostrare la bara di Tolstoj chiusa, trascinata fuori dalla casa del capostazione. Come si trova scritto nel libro di Pozner e come si vede nella foto che pubblico, la bara era aperta.
E così si replica, cent’anni dopo, lo show in diretta dello scrittore che forse ha descritto meglio di ogni altro, in ogni epoca, l’esperienza dell’uomo negli ultimi suoi momenti (La morte di Ivan Il’ič); e che era fuggito di casa a 82 anni non solo per sfuggire alla moglie, non solo per trovare un luogo dove maturare le estreme riflessioni su Dio (questo riguardano gli appunti, dettati alla figlia Aleksandra dal letto di Astapovo), ma per quello che Montaigne indica, indimenticabilmente, come il più forte, il più vero, il più profondo bisogno di ogni uomo, il morire solo.