Francesco Maria Colombo

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Grand Hotel - Francesco Maria Colombo
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Grand Hotel

Grand Hotel (scritto così, all’inglese): il film l’hanno visto tutti, è un capolavoro ed è forse, dopo Ninotchka che resta un miracolo, il film più bello di Greta Garbo (fra parentesi: risento ancora l’emozione di accedere all’archivio privato, qualche anno fa a Londra, di Cecil Beaton. Quella di Beaton, omosessuale, e della Garbo, fondamentalmente lesbica, fu una grande storia d’amore. Le fotografie private che Beaton scattò a Greta quarantenne, in un pomeriggio di felice intimità, sono fra i più strepitosi e commoventi ritratti in tutto il Novecento). E’ una storia costruita intorno a uno schema classicissimo: un luogo “altrove” (l’atmosfera internazionale e artificiale di un grande albergo berlinese) nel quale convengono alcune persone che intrecciano i loro destini, per caso o con intenzione, allegramente o tragicamente. Il luogo “altrove” è il reagente chimico che ne svela la natura più profonda, ma è anche una metafora della vita come apparenza. La nostra individualità appare e scompare; la vita, questa strana cosa che ci raduna tutti nel suo flusso enigmatico, resta: così come resta la struttura (fisica, metafisica, storica, geografica, simbolica) dell’albergo, nel quale ciascuno transita con il proprio carico di entusiasmi e di pene: “Grand Hotel. Always the same. People come, people go. Nothing ever happens”, come recita il dottor Otternschlag nell’ultima battuta del film.

Il film sappiamo tutti cos’è, ma io non avevo mai letto il romanzo (Menschen im Hotel, la traduzione italiana è uscita da Sellerio) da cui è tratto: lo sto leggendo in questi giorni e mi conferma una cosa che già sapevo dalla lettura di Shangai Express, e cioè che Vicki Baum non è forse una grande scrittrice (nel senso in cui Dostoevskij è un grande scrittore) ma è una fantastica narratrice. Ma chi era Vicki Baum? Oggi è quasi sconosciuta, ma ai suoi tempi era popolarissima, sfornava best-seller, era in cima alle classifiche, e proprio per questo è stata sistemata in fretta, dopo la sua morte nel 1960, nella categoria della letteratura commerciale. Ma quale commerciale! Ho quasi finito il romanzo e sono incantato dalla limpidezza, dall’ironia, dalla capacità evocativa di un ambiente, di un carattere, di uno stato d’animo, ma anche dei minimi dettagli, di una conversazione, di un accento, di un profumo, di una luce, di un gesto, che la scrittura della Baum possiede. E poi l’abilità di strutturare la narrazione: tutto s’incastra con un’abilità sbalorditiva, i diversi filoni narrativi e il passato e la progettazione futura di ciascuno dei ruoli (la grande ballerina a fine carriera, il barone galante e astutissimo ladro, il travet che sa di dover morire e vuole aggrapparsi alla vita che gli sfugge sperimentando il lusso, il capitano d’industria che rischia il tutto per tutto), e tutto si metamorfosa grazie alle regole “neutrali” del grande albergo, che impongono a tutti la finzione: così che il libro, in ogni istante, è costruito su due piani, quello dei pensieri e dei desideri inconfessabili e quello dei comportamenti, dove è d’obbligo indossare la maschera. E questa sarebbe letteratura commerciale…

Vicki Baum, che era un’affascinante signora dai forti e simpatici lineamenti semitici, era nata nella Vienna di fine Ottocento, il laboratorio di coltura dell’intera civiltà del Novecento, da Freud a Hofmannsthal, da Klimt a Otto Wagner, da Musil a Schoenberg. Aveva assorbito la tradizione dell’alta borghesia cui apparteneva ma anche quella velocità di pensiero, quell’intuitività immediata e mercuriale, dolorosa e guizzante d’ironia, che sono tipiche dell’identità intellettuale ebraica. Poteva descrivere il gran mondo internazionale, con quel tanto di equivoco e di losco che all’atmosfera del grande albergo è propria (allora come oggi), perché lo conosceva perfettamente, così come conosceva il cuore umano, l’intensità e la vacuità del desiderio. Il grande albergo è ovviamente un luogo canonico della letteratura del Novecento (devo fare degli esempi? da Balbec al des Bains, ma mi sembra di offendere chi legge…), ma forse mai l’ho ritrovato vivido, stagliato, suscitato dalla parola e fatto scomparire come in un sortilegio notturno, come nelle pagine di Vicki Baum (un altro bellissimo esempio è Tentazione di János Székely, anch’egli come Vicki esule a Hollywood e sceneggiatore di successo: in questo caso troviamo Budapest al posto di Berlino).

Insomma: esistono grandi scrittori che non sono grandi narratori, nel senso che la loro scrittura penetra in fondo al mistero dell’uomo e dell’essere in modo insostituibile, ma non possiede la plasticità, l’evidenza, la visualità sprigionate dalle parole dei grandi narratori. Per esempio, Virginia Woolf è ovviamente una grande scrittrice, ma non è una grande narratrice (Ivy Compton-Burnett è una scrittrice infinitamente meno grande della Woolf, ma è una deliziosa narratrice). Per esempio, Borges è uno scrittore immenso, ma non riesco a pensarlo come narratore.

Io amo la scrittura-scrittura di Borges, così come amo la scrittura-narrazione, poniamo, di Chandler o di Kawabata o di Joseph Roth, che sono sublimi scrittori e sublimi narratori. Ma una parte del mio cuore di lettore batte appassionatamente per i narratori puri, per quelli che hanno il dono di farti vedere una scena, un momento di vita, una faccia, un’attitudine, e di combinare tante scene, tante facce e così via in un incastro magnificamente concepito e sviluppato. In questi casi la lettura non è forse l’indagine di me stesso e dell’enigma dell’esistenza, ma è un meraviglioso piacere. Quando leggo Stendhal, che è lo scrittore magnifico che è ma che è anche il prototipo del narratore, io mi abbandono a un’estasi edonistica che ha pochi paragoni, e così quando leggo certi autori del Novecento che sanno innanzitutto narrare, Somerset Maugham, Graham Greene, via via fino, per dire, a Bellow, a Ellroy, ritrovo il piacere della lettura, che è impagabile. Ecco, Vicki Baum è così, e lo è gloriosamente, e io sì, la amo.

(P.S. La stessa cosa vale per la musica e per il dono della melodia. Beethoven e Bach sono il culmine di ciò che la civiltà occidentale ha mai prodotto, ma né uno né hanno il dono della melodia che hanno musicisti “minori” di loro: Schubert, ma chissà se è poi minore?, Tchaikovsky, ad esempio, ma persino Johann Strauss. Poi ci sono quelli che hanno tutto, profondità e melodia, Handel, Wagner, Verdi… Poi, in un’altra galassia, c’è Mozart, che è l’unica cosa che dia senso al nostro stare al mondo).