Francesco Maria Colombo

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Broadway Danny Rose - Francesco Maria Colombo
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Broadway Danny Rose

Mentre preparavo il sito e sceglievo le foto, ho trovato uno scatto di un paio dʼanni fa, a Parigi. Woody Allen in Rue Saint-Honoré, con i turisti del pullman panoramico che si sporgono a guardarlo (non lʼho ancora pubblicata ma lo farò). Mi è venuta voglia di andare a rivedermi un vecchio film che ricordavo bellissimo, Broadway Danny Rose (1984): lʼho visto iersera.

Danny Rose è il più idealista, il più fedele, il più buono, il più sfigato fra tutti gli impresari di Broadway. Il sottobosco dei cantanti di night club, dei prestigiatori per sedi periferiche, dei ventriloqui, degli imitatori, dei ballerini di balli che non si usano più… ecco, tutto ciò è troppo per Danny Rose, perché lui ha i cantanti che i night club non vogliono, i prestigiatori che sbagliano il trucco, i ventriloqui che alle feste per bambini vengono fischiati, gli imitatori che non si capisce chi stiano imitando, i ballerini di tip tap cui è rimasta una gamba sola. Gli ultimi, i derelitti, gli abbandonati dalle luci del palcoscenico, sono il suo rostrum di artisti e tutto il suo mondo affettivo. Ha scoperto qualche buon talento, che al primo refolo della fortuna lo ha abbandonato per impresari più potenti e più introdotti. Ed essendo lui interpretato da Woody Allen al peak del suo talento comico, ne viene un film per cui, ancora oggi dopo quasi 30 anni, si ride dallʼinizio alla fine (la storia parallela, fuori dal mondo del teatro, ha per protagonisti dei gangster da baraccone della mafia italo-americana: con tutto quello che si può immaginare).

Questo è il film, o meglio il guscio esteriore del film, il cui plot segue le alterne fortune di un cantante di origine italiana, Lou Canova (!), che per un quarto dʼora è stato in classifica negli anni Cinquanta con qualche song italo-americano per signore attempate e nostalgiche (il suo hit si chiama My Bambina, e ho detto tutto!), e che sembra, 25 anni dopo, ritrovare un poʼ di credito: feste per ritrovi aziendali, rimpatriate di classe fra pensionati, poi qualche balera, le navi da crociera, la partecipazione a una specie di Jay Leno Show dei poveri, e poi, si spera, il grande salto (!) verso Las Vegas e Atlantic City dopo un concerto al Waldorf Astoria dove si deciderà il suo destino.

Lou Canova è interpretato da… se stesso. Non so dove Allen abbia trovato questo Nick Apollo Forte che ha tutto, tutto, il nome, la frangia, la ciccia, lo spolvero da varietà malandato, la verve, i lustrini di unʼepoca passée, il modo di muoversi felino e ammiccante, lo sguardo languido verso le vecchie liftate e mal ripittate, il lancio agile del microfono da una mano allʼaltra, e soprattutto il talento di songwriter e la voce. Non è solo Lou Canova, ma lʼepitome dei Lou Canova, lʼentelechia dei Lou Canova, la sublimazione eterna della categoria dei Lou Canova. Sue sono le due canzoni più assurde e geniali del film, My Bambina appunto e Agita, che si può ascoltare su YouTube (dove cʼè però anche una versione dovuta a un Vinicio Capossela che non so chi sia, e mi sembra tutto molto squallido, privo di auto-ironia e involgarito). Le parole sono inverosimili (chi non conosca lo slang italo-americano lo impari per comprendere ogni sfumatura del testo, ne vale la pena):

Una two!
Agita
My gumba in the banzone
When I eat, he gets a treat
Like a canzone
He enjoys every meal
Every bite that I steal
Agita
My gumba in the banzone
Za da da da da boom cha boom cha
Za da da dum cha boom cha boom
Some people like their pizza,
some people like-a suffrite
And others like hot pepper
on everything they eat
Youʼll hunger with a vuole
to taste that baccala
Then all at once you think,
”Will I answer to gumba?”
Ba ba ba ba bum cha cha dum
Ba ba ba ba bum cha cha dum
My lovely, lovely woman,
I hate to see her cry
But when I start to mangia
I get the evil eye
My vuoleʼs getting stronger
Ah, the hell with my gumba
Then I get it from my woman,
che da botts a na sciatta
Agita
My gumba in the banzone
When I eat, he gets a treat
Like a canzone
He enjoys every meal
Every bite that I steal
Agita
My gumba in the banzone
Za da da dum cha boom cha boom

Lou Canova ha successo al Waldorf: per lui si apre, tardivamente, qualche prospettiva di carriera, e tutto si deve allʼeroico e disastroso Danny Rose, lʼimpresario dei losers. Subito dopo il concerto, un tetro impresario ben ammanicato lo soffia a Danny Rose. Così vanno le cose del mondo. (Mi è venuta la curiosità, dopo il film, di vedere che fine ha fatto il grande Nick Apollo Forte. Ha 74 anni e fa ancora se stesso, ovvero Lou Canova. Non ha mai girato un film dopo Broadway Danny Rose. Oggi, 2012, i suoi evergreens restano Agita e My Bambina. La vita è amara, spietata).

Sotto il film comico ce ne è un altro struggente, ed è un grande gesto dʼamore verso un mondo, i comici da tre show a serata, i ventriloqui, le paillettes delle ballerine sgangherate, i vecchi di Atlantic City che vogliono riascoltare i “loro” Anni Cinquanta, che nel 1984 era già quasi completamente finito, e del quale oggi non resta più traccia. Il taglio delle giacche, lo jabot inguardabile sotto il farfallino di velluto, il sound pacchiano e ruffiano delle canzoni, i gesti di un repertorio gestuale fuori tempo, le dentiere, i toupé malfermi, i sorrisi prestampati… non cʼè un singolo dettaglio del film che non omaggi quel mondo con una perfezione miniaturistica e una pietas devota che commuovono. Alcune scene le ho riguardate al rallentatore: in una Woody Allen, non ancora impresario, è un barzellettista in una serata di anziani. Mentre ripete per la milionesima volta la sua barzelletta, una signora sullo sfondo fa scivolare una pastiglia effervescente in un bicchier dʼacqua. Eʼ un particolare quasi invisibile a velocità normale: ma è tutto ciò che fa la differenza, è il piano segreto della narrazione, la storia dolorosa che sta sotto la storia comica. Lʼintera vicenda di Danny Rose si inscrive entro la conversazione di un gruppo di amici (anche loro ex cabarettisti di serie B) che rievocano i bei tempi al tavolo di un Deli a Manhattan: Danny Rose, nel momento in cui il film prende lʼabbrivio, è già un ricordo, provvisoriamente scampato al naufragio. Sicuramente non fa più lʼimpresario, non ce lʼha fatta. Forse è morto. Cʼè ancora qualcuno, al tavolo di un Deli, che ne racconta la storia fra mille dolorose risate: poi più nulla.

Broadway Danny Rose è un film sulla memoria. Eʼ anche, a un livello più profondo, un meraviglioso film sulla dignità esistenziale dei perdenti, degli emarginati, degli sconfitti. Cʼè più vitalità e bellezza nel successo dellʼimpresario forte e potente, o nelle storie senza storia di chi, ogni sera, in camerini al neon, si ripete “devo farcela” e torna sulla ribalta davanti a un pubblico distratto? Chi ha toccato più da vicino il mistero, lʼinnocenza, la verità, lʼinsensato incanto dellʼessere vivi, in un qui ed ora spesso assurdo, che il destino ha scelto per noi?

Infine. Il film mi ha toccato da vicino, per la sua profondità nascosta in superficie. Io non conosco quel mondo, il mondo di Lou Canova, di Danny Rose; sono stato ad Atlantic City quando non rimaneva più nulla. Però conosco molto bene il momento prima di entrare sul palcoscenico di un teatro. Lʼattesa, il batticuore, la paura, il disprezzo del rischio, la voglia irrefrenabile di possedere il pubblico. E almeno un ricordo riaffiora dal mio passato. A New York, ero con mio padre, avevo 14 anni. 1979. Una New York in cui la qualità dellʼaria, il colore, le luci, lʼodore, lʼatmosfera, le macchine, le insegne, erano diversissime dalla New York di oggi. Non so perché (sicuramente un suo impegno di lavoro) a un certo punto ci trovavamo seduti al cocktail bar della lounge, al Hilton Hotel sulla Sixth Avenue. Ero incantato da tutto, le donne bellissime e sexy, gli uomini coi sigari, le conversazioni, lʼandare e venire. Al centro della lounge cʼera una specie di fossa con tre gradini discendenti, dove stava un pianoforte a coda bianco, circondato da palme. Lo ricordo come fosse oggi. A suonare le vecchie melodie di Jerome Kern e di Irving Berlin cʼera un vecchio pianista, grasso, coi lunghi capelli bianchi e occhiali azzurrati. Vestiva un frac bleu notte e al dito portava, cosa che non dimenticherò mai, un enorme trashissimo anello a forma di pianoforte a coda. Capii tante cose dellʼAmerica quella sera, ho spesso desiderato ritrovare “quel” momento, quellʼistante della mia vita, quel frammento della memoria. In Broadway Danny Rose cʼè, è intatto, scintillante e piangente.