Francesco Maria Colombo

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Cartolina in forma di Adagietto - Francesco Maria Colombo
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Cartolina in forma di Adagietto

Ieri (è strano, è strano) ero invitato alla Scala ad ascoltare una magnifica Cavalleria rusticana diretta da Harding (bella l’edizione, e bello il chiacchierare all’intervallo, che per me è la parte più piacevole di ogni serata a teatro). In programma c’era, fra l’altro, un balletto sulla musica dell’Adagietto di Mahler (Quinta Sinfonia). E intanto che scorreva, fluido, liquido e languido, mi sono tornati a mente frammenti di vita. L’Adagietto e FMC hanno una loro storia.

1974: avevo 9 anni e l’Adagietto era per me uno spartito con la copertina rossa, una trascrizione per pianoforte che era in casa e che faticosamente (i ritmi!) imparavo fra me e me. E siccome le sue armonie malandrine erano tutt’altra cosa rispetto agli esercizi dello Czerny che erano il pane quotidiano dei miei studi, l’Adagietto era un’oasi di piacere un po’ proibito. Mi ricordo che lo suonavo la domenica mattina, perché mi piaceva che lo sentissero i miei genitori.

1984: avevo 19 anni, ero giornalista da un anno, scrivevo tutto il giorno per giornali minori ma cominciavo anche a darmi da fare con saggi e dissertazioni (era anche il periodo più brutto della mia vita). L’Adagietto era rientrato nella mia vita per un tramite intellettuale. Avevo scoperto la seduzione di Vienna, della Finis Austriae, leggevo Lontano da dove di Magris, leggevo Schnitzler e Musil, guardavo i film di Visconti ma l’Adagietto era ricomparso grazie a un’esecuzione di Claudio Abbado alla Scala, e la mia mente di giovincello saccente fluttuava in quella musica come le figure del Beethoven-Fries di Klimt. Studiavo direzione d’orchestra ma Mahler non lo si toccava.

1994: avevo 29 anni, scrivevo sul Corriere della Sera, viaggiavo in tutto il mondo, avevo “capito” quanta fuffa ci fosse nei miti della Finis Austriae, quanta retorica della decadenza, quanto provincialismo ammantato di falsa profondità. L’Adagietto di Mahler era un po’ il simbolo di tutto questo, e lo ripudiavo. Ricordo benissimo un’esecuzione di Sinopoli con la Philharmonia, una signora piangeva durante l’Adagietto e io pensavo a che oca fosse, a farsi fregare da una musica così ruffiana. Era l’epoca in cui a Mahler preferivo Cole Porter e Francis Poulenc (forse li preferisco ancora oggi), e credevo di aver compiuto il periplo della cultura. Un’altra incarnazione del fesso che fui, ero e sono.

2004: avevo 39 anni, non scrivevo più, sbacchettavo ma, così vanno i casi della vita, l’Adagietto non è mai comparso nel mio repertorio. Di Mahler ho diretto solo la Settima (che resta la mia preferita) e la Decima Sinfonia, e i Kindertotenlieder. Era musica alla quale non ripensavo mai. Scomparsa, dispersa. Che fine aveva fatto?

2014: voilà, ho 49 anni, un giorno qualsiasi alla Scala mi ritrovo l’Adagietto fatale, ed esso scorre nella mia coscienza non tanto per sé (di ciò che è per sé, qualsiasi cosa sia, ormai poco mi importa) ma spiccandomi una cartolina dal mio passato: per i ricordi che mi porta, per farmi sentire questa autocoscienza confusa, un po’ ebbra, sempre più priva di chiavi d’interpretazione ma sempre più appassionata alla vita, che è la mia identità di questi ultimi anni. Mi sembra, forse, musica molto bella: ma non la ascolto. La musica, ogni musica, è diventata l’accensione di un passato riemergente, è diventata interrogazione di me stesso; per tutta la musica potrei dire quello che dice Parsifal all’ingresso nel mondo del Graal: “Cammino appena, ma sono già lontano”…