Ehrengard
Lei era una delle grandissime donne del Novecento, delle cinque o sei che al Novecento hanno dato forma e stile e profondità di espressione. La Baronessa Blixen! “Lieve come una manciata di piume, fragile come una conchiglia”, secondo la descrizione che ne diede Truman Capote in una pagina meravigliosa (The Dogs Bark). “Allʼistante, anche ignorando il suo curriculum, si avverte in lei la vraie chose, la figura dʼeccezione. Un volto così sfaccettato, prismi che rifrangono lampi orgogliosi di intelligenza e di colta partecipazione, vale a dire saggezza, non può essere un fatto casuale; né simili occhi, le palpebre sfumate di bistro, profondamente incassati, come animaletti vellutati rimbucati nella tana, sono prerogativa di donne comuni”. Capote si vide servire, nella casa di Rungsted, la cittadina costiera della Danimarca dove oggi un museo ricorda la scrittrice, “uno sherry, poi un profluvio di pane tostato e marmellate varie, pasticci di carne freddi, fegato alla griglia, crêpes allʼarancia. Ma la padrona di casa non partecipa, non sta molto bene, non mangia nulla, assolutamente nulla. Oh, magari unʼostrica, una fragola, una coppa di champagne. Invece, discorre; e come la maggior parte degli artisti, e di certo come tutte le bellezze passate, è abbastanza egocentrica da apprezzarsi come argomento di conversazione”.
Quando morì a Copenhagen, nel 1962, Karen Blixen pesava… nulla. Lʼanoressia seguiva alla riduzione chirurgica dello stomaco ulcerato, e si innestava su un corpo da molti anni malato. Il Barone Blixen aveva trasmesso la sifilide alla giovane moglie negli anni Dieci, unica eredità insieme al titolo nobiliare cui Karen, née Dinesen, teneva moltissimo. Eppure questa donna che definiva la morte “il mio più antico flirt” aveva una forza vitale tenacissima, dura, salda, erompente, e un amore per la vita formidabile (anche nel senso di spaventoso), quasi eccessivo: in ciascuno dei racconti della Blixen, insieme con la vertiginosa ricercatezza stilistica, cʼè una risonanza dei sensi, unʼeco delle loro lusinghe, che fa tuttʼuno con il piacere dellʼintelletto, fecondandolo e da quello ricevendo in cambio una squisitezza senza eguali. Chi abbia letto Il pranzo di Babette sa di cosa parlo. La Baronessa era stata una ragazza espansiva ed estroversa (peraltro, annoverava nel curriculum dei dolori la scomparsa del padre suicida), e la sua storia dʼamore in Africa con Denys Finch-Hatton è fra le più splendide, sensuali, eroticamente accese, vitali ed estreme e tragiche che io conosca. A me dellʼAfrica è sempre importato pochissimo: se mai cʼè un senso per lʼesistenza di questo continente indecifrabile è il fatto di aver generato Out of Africa di Karen Blixen.
Karen non era stata una ragazza bellissima: alla jeunesse dorée danese doveva sembrare un equivalente femminile di Tonio Kroeger a Lubecca, cʼera in lei qualcosa di esotico e di scuro, un guizzo nervoso, unʼirrequietudine nei muscoli del viso, le stimmate di chi è diverso. Ma era una seduttrice, sapeva irradiare unʼaura di attrazione intorno a sé, sapeva far sembrare il mondo più bello a chi la avvicinasse, le cose più interessanti, la vita più enigmatica ed espressiva. Come tutti i seduttori doveva farsi amare perché in sé recava dolore e insicurezza, e come tutti i seduttori aveva compensato lʼinvivibilità del reale attraverso lʼipertrofia del narcisismo. Seduceva con la sua spigliatezza impudente, con le vaste zone dʼombra che sapeva creare intorno a sé; con la conversazione elegantissima; e naturalmente con la sua scrittura, che resta assolutamente unica nel Novecento, un secolo dove pure la short story (la forma per eccellenza della Baronessa) ha una tradizione gloriosissima. Unica perché non si riesce a immaginare nulla di più artificiale e meno “realistico” dei suoi racconti, che sono fantasie gotiche, apologhi, leggende messe fra virgolette dallʼio narrante e dunque filtrate da distanza e ironia, riscrittura di altri testi ovvero segreto dibattito intellettuale con quelli, sentenze separate dal corso delle cose quotidiane e dalla penna rivestite di una luminescenza compatta, vitrea e fredda come quella della porcellana sassone. Ma nello stesso tempo non si riesce a immaginare nulla di più traboccante dellʼestasi che le cose, le sensazioni, i colori e i profumi, la perfezione di un gesto o di una frase, la dolcezza di un sentimento, il gusto di un frutto o il fruscìo delle foglie di sera, sotto la penna della Baronessa sprigionano: nulla, insomma, più traboccante di bellezza.
Il tema della seduzione percorre tutta lʼopera di Karen Blixen, ma alla fine della vita, quando lei non poteva più scrivere ma dettava alla segretaria le sue pagine, esso si è concentrato e rastremato in un ultimo racconto imperniato su di esso: forse il racconto più bello che la Baronessa abbia scritto, sicuramente una delle pagine assolutamente perfette, tagliate come un diamante, della letteratura occidentale. Lo scrisse in inglese (come Conrad e Nabokov, la Blixen è fra gli autori di madrelingua allogena che hanno prodotto una prosa inglese esemplare) e non riuscì a tradurlo in danese, non fece a tempo. Venne pubblicato poco dopo la sua morte, nel 1963. Il racconto si intitola Ehrengard.
Ehrengard è una ragazza alta, sana, forte, cresciuta in una severissima stirpe di militari e cacciatori devoti al proprio Principe, in un piccolissimo principato germanico di inizio Ottocento. Il tono del racconto è quello di Es war einmal…, un “cʼera una volta” cavalleresco e feudale modellato, o almeno a me così sembra, sul secondo dei sublimi Trois Contes di Flaubert: “cʼera una volta” che è un omaggio a unʼEuropa, a consuetudini, a forme di civiltà, a una cultura che non esistono più. E già in questo la Blixen separa due piani della narrazione: noi non leggiamo il racconto, ma ascoltiamo una voce che ce lo racconta, lo vediamo rappresentarsi come su un palcoscenico che lo media, lo distanzia emotivamente, lo marezza di una sfumatura gnomica. Ma del rapporto con il passato fa parte un omaggio della Blixen alla propria cultura, la tradizione danese: la storia di Ehrengard si ricollega, senza che questo sia mai denunciato, a quella di Cordelia nel Diario di un seduttore di Soeren Kierkegaard, alter ego della Baronessa perché scrittore di tormentata profondità sotto le spoglie di uno stile classicissimo, asciutto e austero. Noi, dunque, entriamo in una storia e godiamo della narrazione, ma nello stesso tempo ammiriamo il sottile gioco di rimandi, allusioni, parallelismi, omaggi e parafrasi che lega la prosa dei due scrittori danesi. Sortilegio intellettuale leggerissimo, filigrana metafisica, che è il sigillo estetico e insieme etico (la polarità di estetica ed etica e la loro segreta attrazione è il cuore della filosofia di Kierkegaard) del racconto.
Ehrengard, dunque, leale, vitale, trasparente, assolutamente innocente, una sorta di “bionda belva” nietzscheana temprata da rigide regole fino ad averle assorbite nella propria indole ardimentosa, è scelta per vegliare la Principessa di Babenhausen e farle compagnia, nel castello dal soave nome di Rosenbad, durante unʼoccorrenza delicatissima: la Principessa è gravida, e lʼerede, concepito prima del matrimonio, dovrà essere tenuto nascosto fino al giorno, due mesi dopo la nascita, in cui sia possibile annunciarne la venuta al mondo secondo le regole del decoro. Ehrengard viene dunque immessa in un mondo cortese nel quale la cognizione sottesa è quella della colpa, del peccato, della sfumatura che incrina lʼinnocenza: senza che lei se ne accorga, perché la lealtà alla propria sovrana è tutto ciò che ne abita la coscienza. Chi lʼha scelta per il rischioso compito è il Geheimrat Cazotte, una figura tipica dellʼEuropa di Goethe (di cui porta persino il nome, Johann Wolfgang) e Schiller, il Consigliere Segreto del regnante, apprezzato per le sue doti di cultura, equilibrio, intelligenza, Witz ironico, e per la sua arte: è infatti un pittore rinomato.
Cazotte è un seduttore: come a tutti i veri seduttori gli importa non solo e non tanto lʼistante in cui possa dichiarare vittoria, ma il processo seduttivo. In Ehrengard ha eletto la sua preda: la donna più limpida, più infrangibile, più virginale, più impermeabile allʼidea stessa di vizio, è colei che eccita le sue arti fascinatrici. Non gli importa di possederla, come esito scontato della conquista: vuole entrare così profondamente dentro di lei da far sbocciare il segno manifesto e silenzioso dellʼimbarazzo, della coscienza del peccato, dellʼinsinuazione di colpa: il rossore. Le gote imporporate di Ehrengard saranno il premio alla sua strategia.
Come il Diario di un seduttore di Kierkegaard, il racconto della Blixen è dunque un manuale di seduzione: una frase lasciata cadere, una passeggiata con i suoi silenzi, la “casuale” deviazione verso un gruppo marmoreo con le figure di Leda e del cigno, lʼassiduità e le misteriose assenze, una mano avvicinata senza che sfiori quella di lei, sono infinite le tecniche nel repertorio di Cazotte, ed egli le amministra con una flessuosa naturalezza tale da nascondere lʼintenzione. Ehrengard dovrà essere sedotta senza che mai lo possa sospettare.
Il punto dʼarrivo di questa evoluzione del racconto sarà un episodio che non voglio svelare, ma che è unʼaltra cornice formale attraverso la quale la Blixen filtra la narrazione, perché rievoca il tema mitologico del bagno di Diana. Allo scoccare di quella pagina, il capolavoro di Cazotte sembra esser giunto a compimento: il seduttore sembra poter trionfare della sedotta. Ma la Baronessa Blixen, che scrive Ehrengard a settantasette anni, dopo unʼintera vita trascorsa a sedurre, sa qualcosa che tutti i diversi, i narcisisti, i feriti, quelli per cui le regole dellʼattrazione sono in bilico sui crepacci della sofferenza, i prìncipi della seduzione e del pericolo, conoscono misteriosamente. Sa che i seduttori non scelgono a caso, sa che sono rabdomanti in cerca dei propri simili, gli unici in grado di tener loro testa, di sostenere la partita a scacchi, di rimandare il brivido del pericolo, di far saltare le illusioni di equilibrio. Sa che la seduzione va verso la seduzione, captandone segni invisibili a ogni altro essere, ritrovando paure e desideri come in uno specchio che si cercava invano di tenere coperto. Sa che sedurre è un rischio più per il seduttore che per lʼessere sedotto, sa che il seduttore non è mai solo quando incomincia il proprio gioco e sa, allo stesso tempo, che la solitudine del seduttore non sarà mai, per definizione, colmata. Chi è dunque lʼinnocente Ehrengard, la vergine guerriera al riparo dalla velenosa malattia dello spirito? Lo scopriremo nella parte finale del racconto, le ultime pagine del quale, con la rivelazione affidata a una sorpresa stupefacente, mi fanno domandare se mai, nel secolo scorso, sia stata distillato, con alambicchi tanto complicati, un liquore così puro.
Rileggere Ehrengard in questo momento della mia vita, e negli ultimi giorni lʼho riletto cinque volte, è stato un piacere senza pari, ed anche una piccola sorgente di inquietudine. Sullʼultima pagina del libro ho trovato la dedica di chi me lʼha regalato, una quindicina di anni fa: una donna di cui non ho più tracce, una delle pochissime donne che mi abbiano regalato un libro, e delle ancor più scarse ad avermi regalato il libro giusto. Era anche lei una ragazza piccola, sensuale, sofferente e vivace come lo era stata Karen Dinesen; e, oh sì, una seduttrice nata. Sotto il suo nome aveva scritto il motto stupendo della Baronessa: Je responderay.