Frances
La prima volta che finì sui giornali aveva 18 anni, e non fu perché era bellissima. Era una ragazza provinciale: oggi Seattle è una città importante ma nel 1913, quando lei vi nacque, era il capo di Finisterre del North-West americano. Finì sui giornali per aver pubblicato, come saggio scolastico, un tema intitolato God Dies. Vinse 100 dollari e un viaggio premio in Russia, e cominciò a crearsi la fama di indomabile, di indocile, di scriteriata. Non aveva le idee molto chiare: le piacevano il teatro, i circoli progressisti, scriveva lunghissime pagine di diario, era diversa e voleva essere diversa, a costo di dare la testa nel muro. Ci riuscì. E’ stata forse l’attrice più diversa del Novecento, più di Louise Brooks. Sicuramente è stata quella dalla vita più tragica.
La prima volta che sentii parlare di Frances Farmer fu quando vidi il film interpretato mirabilmente da Jessica Lange, uscito nel 1982. Il film non era un granché ma seguiva piuttosto fedelmente (tranne che in un particolare molto importante) la biografia di Frances; e la Lange era di una bellezza, di un’intensità dolorosa, di un’inquietudine sperduta, di una sensualità sconvolgenti. Non ho forse mai visto uno sguardo così capace di dire tutto e l’opposto di tutto nel medesimo istante, la sfrontatezza e l’acqua alla gola, la malizia e la paura, come quello di Jessica Lange: e su tutto questo, la luce che si sprigiona da quegli occhi scuri, una luce che hanno solo le persone dalla vita sessuale felice.
Frances, il film, mi colpì molto. Anni dopo ho letto l’autobiografia di Frances Farmer, Will There Really Be a Morning?, il cui plot potrebbe esser stato immaginato da Dostoevskij. Ma era impossibile trovare i pochi film da lei interpretati a Hollywood negli anni Trenta. Una quindicina di anni fa trovai a New York una copia in vhs di Come and Get It (1937) dove Frances compare in due ruoli (madre/figlia): era un’attrice deliziosa, e persino più bella di Jessica Lange. Negli ultimi anni sono usciti diversi dvd, e ora su Google si trovano tante immagini di lei.
Frances Farmer era troppo sensibile, troppo indipendente, troppo fragile, troppo vera per non spezzarsi al tocco della realtà. Veniva da una di quelle perfette famiglie-inferno con un padre invisibile e una madre orribilmente possessiva e prepotente, di quelle che ti distruggono “per il tuo bene”. Aveva tutti i sintomi, gli sprofondamenti nella depressione e gli entusiasmi improvvisi, l’intelligenza troppo sviluppata e l’inabilità a organizzare la vita, l’aggressività selvaggia e l’impossibilità di difendersi davvero, la compulsione erotica e l’incapacità di stabilire autentici rapporti di amore, che si ritrovano nelle persone geniali e disperate di cui ha parlato Kay Jamison in un libro straordinario, Touched with Fire: Manic-Depressive Illness and the Artistic Temperament.
Ebbe un grande successo sugli schermi, dove portava un volto estremamente moderno, complesso, tormentato ma anche capace di un sorriso ravissant, in un’epoca in cui andavano di moda le fatalone. Era una donna di una bellezza radiosa che giorno dopo giorno scendeva all’inferno. Non l’inferno di qualche vodka in più come nel cliché di Hollywood, ma l’inferno dell’autolesionismo (andarsene dalle produzioni nel momento sbagliato, arrivare alle feste e offendere tutti, non tenere a freno l’autocommiserazione o l’irrisione, non rispettare i contratti, e naturalmente scegliere sempre gli uomini più mascalzoni) e della violenza inferta (mandò all’ospedale la sarta del camerino, aggredì un poliziotto che l’aveva fermata perché guidava ubriaca e coi fari accesi in periodo di coprifuoco, si scagliò contro la madre e contro i medici che l’avevano in cura). I giornali non risparmiarono un solo istante del suo calvario: la seguirono nelle aule giudiziarie, nelle stazioni di polizia (dove una volta, richiestale l’occupazione, rispose indimenticabilmente: “cocksucker”), in prigione, in manicomio. Le prigioni non erano quelle dove finiscono le divette di oggi in cerca di pubblicità, erano nere cloache dove non sapevi se fosse peggio l’isolamento o la compagnia forzosa di altri reietti. Il manicomio era un luogo abbandonato da Dio, dove il peggio non era nemmeno subire l’elettrochoc o i bagni ghiacciati o la terapia insulinica che la lasciava prostrata: era subire lo stupro dei militari che allungavano venti dollari all’infermiere, di notte, per scaricarsi dentro il corpo di quella che, poche stagioni prima, era l’irraggiungibile diva del cinema (nell’autobiografia lei stessa racconta questi episodi).
Frances Farmer scappò diverse volte, finì vagabonda per non tornare sotto le grinfie della madre, venne riacciuffata e riportata in cella, rinchiusa nella camicia di forza o legata sui letti di ferro dove la notte la morsicavano i ratti. Ogni volta uscivano articoli di giornale, fotografie scandalistiche: l’America era affezionata alla propria bad girl, non poteva perdersi una puntata del serial. Non le fu risparmiato nulla.
Dopo il 1945 tutti la videro cambiata: era docile, remissiva, poco più di una bambina, beveva ancora molto ma non era più violenta. Una delle tesi discusse dai biografi, e che il film con Jessica Lange accredita forse scivolando oltre il rigore biografico, è che la Farmer avesse subito la lobotomia che in quegli anni il dottor Freeman aveva trasformato in una sorta di macabro show (“dieci pazienti in un’ora”, “con la mano sinistra”…). La sua vita cambiò, sposò un operaio, fece la contabile, la lavandaia, ebbe un quarto d’ora di celebrità tardiva quando provarono, con scarsi risultati, a farla recitare ancora. Si ridusse a condurre un talkshow su una tv di provincia, a Indianapolis, prima di venire licenziata anche di lì, perché sempre ubriaca. Morì in povertà nel 1970, a 56 anni, di cancro all’esofago, sola com’era vissuta sempre.
In un bellissimo romanzo del grande Philip Roth, Indignation, uscito pochi anni fa, c’è una figura femminile che svetta sopra tutte le ragazze del campus universitario dove studia. Si chiama Olivia Hutton, è di buona famiglia, bellissima, una donna fra le ragazzine insulse che le sono coetanee. Quando la incontra, il protagonista se ne innamora senza difese: nessuna è seduttiva come lei, sessualmente spregiudicata come lei, traboccante di vita come lei, intelligente come lei, diversa come lei. Non tarderemo a scoprire il segreto di Olivia Hutton. Anche lei, come Frances Farmer, reca su di sé la malattia maniaco-depressiva. Ha tentato il suicidio, la vedremo incamminarsi verso la solitudine e il dolore. Le donne per cui vale la pena di innamorarsi sono fatte così. Le altre, per belle che siano, sono l’incarnazione della noia e della mediocrità. O almeno, così è quasi sempre stato per me. Come mi dice spesso il mio migliore amico: “A me piacciono le donne, a te le psicopatiche: questa è la differenza fra noi due”.