Ingeborg
Morì vittima di un rogo, in un palazzo romano: sigaretta accesa, il sonno che sopravviene, il fuoco che percorre le lenzuola, il tentativo di buttarsi nell’acqua e le ustioni che si aggravano. Tutto in pochi minuti. Ambulanza, ricovero all’ospedale Sant’Eugenio, un’agonia lunga due settimane. (Gli ospedali italiani negli anni Settanta, il traffico di Roma, i trafiletti sui giornali). Aveva 47 anni, oggi ne avrebbe 86. L’ossessione per il rogo e per la donna bruciata percorre uno dei suoi capolavori, Malina. Descrisse, prima di morire, le circostanze della propria morte, come Pushkin in Evgenij Onegin descrisse le occorrenze della propria.
Nessuno eguaglia la sua scrittura affilata, precisa, microchirurgica, persino fastidiosa nel suo accanirsi sulle ombre che abitano dentro di noi e ci rendono impossibile il vivere. Nessuno ha guardato con occhio così limpido e spietato nel malconcio ingranaggio psicologico che sostiene l’impalcatura delle nostre vite, nel codice di oscuri divieti e falsi accomodamenti che regola le distanze fra noi e gli altri, fra il maschile e il femminile, fra l’incertezza del bene e la sopraffazione del male. La grande, grandissima Ingeborg Bachmann.