Francesco Maria Colombo

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Gli amanti - Francesco Maria Colombo
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Gli amanti

Non c’è nulla di così prossimo alla psicosi come l’amore, dice Freud (la citazione la ritrovo nel film di Faenza su Sabina Spielrein, Prendimi l’anima). Chi l’abbia provato sa cosa voglio dire: gli accessi e gli eccessi emotivi, la sfida all’ultimo sangue, la tracimazione della presenza dell’uno/a nella vita dell’altra/o. L’amore come passione totale, insomma. L’amore che finisce e si brucia, in nove settimane e mezzo o poco più. La gelosia insana. L’unità di misura che resta per tutta la vita.

Qualcosa di completamente diverso è nella foto di Delphine Seyrig e Giorgio Albertazzi. Nel celebratissimo e insopportabile film di Resnais, L’année dernière à Marienbad, la situazione è ben diversa da ciò che appare, ma la foto presa in sé mi colpisce enormemente, e mi fa ripensare a cosa gli amanti siano, o debbano essere, in verità. E non si tratta dell’amore passione, né della scappatella sessuale, né del condividere la continuità e la quotidianità della vita: si tratta dell’essere amanti, che è un’altra cosa, completamente diversa.

Nella foto Albertazzi è fermo, passivo: è un uomo che sa che la donna che gli sta davanti è sua, conosce di lui le cose segrete, condivide i suoi vizi, ama il modo in cui lui si veste, conversa, legge una rivista, visita le sale di un museo, si fa la barba al mattino. Ma non è sua in ciò che di pesante, impegnativo, quotidianamente oneroso ha la vita: è sua lievemente, giocosamente, è sua in una dimensione che è solo loro, a tutti ignota, fatta solo di cose belle e piacevoli: non perché le cose difficili vengano ignorate, ma perché il gioco e la levità le curano, le leniscono a modo loro. Lui guarda questa donna nel modo in cui è impossibile guardare una moglie, una compagna di vita, una fidanzata, una concubina, la destinataria dell’amore folle e geloso: la guarda come si guarda la propria amante: con abbandono, sicura dolcezza, ironia, complicità.

Ma il capolavoro della foto sono lo sguardo e la posa di Delphine Seyrig. Nessuna donna sorride in quel modo lento, calmo, sicuro, conscio della propria seduttività, ancora una volta lieve e giocoso, se non al proprio amante: non lo farebbe mai col fidanzato o con uno sconosciuto che la faccia divertire a letto. Nessuna donna allunga una graziosissima mano, la mano di una ragazza su una donna di 30 anni, con un semplicissimo anello al medio, a toccare la bocca ed il mento di un uomo, se fra loro non ci sia la complicità dell’essere amanti: e dell’esserlo da tempo, e dal sapere, come tutti gli amanti devono sapere, che è un bellissimo gioco destinato a finire. In quel tocco c’è la sensualità delle dita che sfiorano le labbra, c’è il tacitare una parola di troppo come molte ne dicono gli uomini, c’è il riaffermare una consuetudine e un dolce, ironico possesso, e tutto questo combinato a un meraviglioso sorriso che non è spiegato, espansivo, radioso, ma ha in sé una complicità dolce-amara. Sembra dire: io conosco fin troppo bene quello che fa felice il mio amante, e sorrido di lui e di me, perché ne sono felice anch’io; e nello stesso tempo so che si tratta di un gioco da vivere con leggerezza, amando le stesse cose, rispettando spazi altrui che mai si dovranno invadere, seducendosi continuamente ma senza il minimo showing off, con eleganza, proprietà, ironia.

Quella donna sa di avere di fronte il proprio amante, ma sa soprattutto di essere, lei stessa, un’amante, questa parola così unica che pone una donna (una signora) fuori dalle regole che lei stessa ama, perché conosce e rispetta le convenienze della vita. E’ una trentenne bellissima ed elegante, non dipende da nessuno, ha la propria vita, un taglio di capelli stupendo e gli abiti di Chanel, ed è un’amante perché ama giocare, sedurre, esser complice, ed “esserci”, con discrezione, nei misteri di un uomo che le piace, che la attrae, che la diverte.

Amore passione? Neanche per sogno. Gelosia? Un nonnulla, una marezzatura narcisistica sulla quale sorridere. Intimità? E’ una complicità che si costruisce lentamente per il gusto di vederla costruire. Leggerezza? Per gli amanti valgono le meravigliose parole della Marescialla nel Rosenkavalier di Hofmannsthal e Strauss, quando lei si rivolge al suo giovane amante, il Conte Rofrano, consapevole che le cose belle non durano per sempre: “Heut oder morgen oder den übernächsten Tag. Nicht quälen will ich dich, mein Schatz. Ich sag’ was wahr ist, sag’s zu mir so gut als wie zu dir. Leicht will ich’s machen dir und mir. Leicht muss man sein, mit leichtem Herz und leichten Händen halten und nehmen, halten und lassen…”, “Oggi o domani, o il giorno ancora dopo. Non me ne lagno, mio tesoro. Dico ciò che è vero, a te come a me stessa. Voglio che sia lieve per te e per me. Lievi si ha da essere, con lieve cuore e lievi mani: tenère e prendere, tenère e rendere…”.

Chi è stato/a amante, sa quanto sia raro e prezioso questo dono (per eccellenza, un dono tardo). Non accade quasi mai nella vita, perché entrano sempre in gioco l’intolleranza, la possessività, il tedio, o semplicemente l’amore e la passione, che con l’essere amanti confliggono insanabilmente. Perché accada ci vogliono vite separate e senza recriminazioni, gusti e modi comuni e comuni attitudini e comuni perversioni; ci vuole il saper stare al proprio posto e insieme l’assicurare la continuità, perché l’essere amanti è un fiore di serra, occiduo e fragile, che ha bisogno di essere amorevolmente, costantemente, pazientemente, e soprattutto segretamente curato. Ci vuole un enorme compiacimento, un silenzioso orgoglio, nel sapere che quell’uomo o quella donna è il proprio amante, e nessuno lo deve sapere, e ogni sfoggio è bandito. Ci vuole quel sorriso di Delphine Seyrig e il fatto che, guardando quella foto, lei senta, in quello stesso istante, di volere quel taglio di capelli per sé.

Gli amori folli hanno pochissimo in comune con l’essere amanti. E non accade mai che si trasformino, alla fine, nell’essere amanti. Se ciò accadesse, il mondo e la vita sarebbero perfetti.