Francesco Maria Colombo

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Il cielo sopra Kiev - Francesco Maria Colombo
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Il cielo sopra Kiev

Quattordici chilometri a piedi in due giorni e migliaia di scatti fotografici: ho setacciato Kiev per vedere, vedere, vedere tutto il possibile, gli altarini ai defunti del nazionalismo ucraino, il mercato bessarabico e le vecchie commesse addormentate fra le carcasse dei polli; certe ragazze inastate, raggianti, la pelle di una luminosità alla Palma il Vecchio, le gonnelline minuscole che sembrano volare via, il passo sempre un nonnulla goffo, e dunque ancora più attraente; e ancora le stesse ragazze che entrano nelle chiese con un foulard e baciano l’icona; i soldati che fumano fuori dai cessi pubblici; i palazzi rimasti del costruttivismo socialista, che vidi 35 anni fa (la mia prima volta a Kiev: 1979) quando nessuno immaginava la caduta del Muro; i palazzi vecchi, le facciate decorate e non elegantissime che recano uno struggente senso della storia, qualcosa di caduco, le memorie di letture ebraiche, certo Joseph Roth; le guardie del corpo fuori dai grandi alberghi e dai casino; il colore e l’immensità del Dniepr e le coppiette sul lungo fiume, e la vecchia stazione dei traghetti, che abbatteranno ed un altro pezzo di vita e di memoria se ne va.

E mi viene da dire una cosa che non ho mai pensato: che la musica per me è stata, insieme con le donne, la passione della vita: l’intimazione di un significato o il balenìo di esso, la gioia sensuale e stringicuore del suono, un’eco di verità quando ci pare impossibile. E ne ho avuta un’esperienza così diretta da spremere da me stesso tutto quel che sono, in bene e in male. Solo chi ha suonato le Variazioni Goldberg sa di cosa si tratti; solo chi ha diretto il Preludio del Tristano sa cosa vuol dire la trasformazione fisica del proprio corpo (il respiro, la pulsazione cardiaca) nel divenire della musica. Eppure… eppure io ho adesso questo bisogno di vedere, vedere, vedere che moltiplica le mie energie, non mi fa conoscere stanchezza, va dappertutto, vigile, a volte un po’ arrischiato, a volte per vie cieche, a volte sorpreso dalla bellezza improvvisa. E alla mia vita sarebbe mancato moltissimo se a un certo punto questo senso non avesse reclamato per uscire allo scoperto, per farmi conoscere quel che c’è fuori di me e dunque me stesso (o forse no: non ha poi molta importanza; l’altro giorno mi sono colto nello specchio di un camerino e ho visto improvvisamente, in me, un altro, uno che un po’ conosco ma di cui in fondo non mi interessa sapere di più, uno che può esserci o non esserci e sono fatti suoi). E la musica, da sola, non raggiunge quel che lo sguardo coglie. La musica, come il femminino di Goethe, zieht uns hinan: ci fa ascendere, risolve tutto nobilitando, armonizzando, componendo, rappresentando ogni cosa in forma compiuta. Ma la vita non è compiuta: la vita è un’olla podrida di cose belle e brutte, spesso volgari, spesso assurde, quasi sempre irrisolte: la vita suda, la vita ha un odore, e la musica questo odore non lo sa tradurre: lo ignora o se ne scosta, va più in su, sopra le nuvole, dove il cielo è azzurrissimo come che sia il tempo. Quando, da piccolo, io ho scoperto l’odore della New York anni Settanta, l’asfalto cotto, i tombini fumanti, il lezzo dei chioschi di hotdog per strada, la ferraglia delle macchine di allora vaporizzata nell’aria, io mi sono inebriato in modo irripetibile. In quell’odore c’era vitalità, l’ignoto, l’esotico assoluto, la rivelazione dell’altro mondo (tutte le cose che cerco di ritrovare, ormai purtroppo invano, tutte le volte che torno a New York). Nella musica tutto questo non c’è, non può esserci. Ma se rivedo Taxi Driver io sento ancora quell’odore che per me è mille cose, la presenza di mio padre nella città che più amava, il me stesso (quello sì, quello lo riconosco, quel bambino sono io) affascinato… (E forse ho detto solo sciocchezze perché senza la colonna sonora di Bernard Herrmann nulla avrebbe senso)…

Io ho scoperto la prepotenza, la chiassosa impellenza dello sguardo molto tardi, dopo i quarant’anni. Non l’ho scelto, è venuto da solo. Come in tutto ciò che ho fatto (scrivere, suonare e dirigere, fotografare) ho tenuto fede al motto di Henry James: “We work in the dark – we do what we can – we give what we have. Our doubt is our passion and our passion is our task. The rest is the madness of art”. Ho fatto cose belle e brutte, sono stato apprezzato e criticato, ed è tutto così labile e vano, un passaggio rapido come quello di ciascuno, la necessità di dare un senso, tutto da capo, a questo assurdo che è la nostra vita, di cercare diramazioni e vettori di questo senso, e la fine già ci incalza… In the dark, con mille paure, ma con una gratitudine inesauribile per chissà cosa ci ha messo qui senza che sappiamo perché: our doubt is our passion and our passion is our task.