Chi era Lorin Maazel?
Mi è bastato scendere al baretto e sfogliare un giornale per imbattermi nelle solite minchionerie: Lorin Maazel ne è oggi il destinatario, un coccodrillo idiota e banale non si nega a nessuno. Stimo due o forse tre dei critici musicali. Gli altri sono dilettanti e/o tromboni allo sbaraglio, non distinguono un maggiore da un minore, inseguono le proprie fantasie senza alcuna tangenza (le tangenti sono per loro, semmai, d’altra specie) con la realtà.
Io non faccio più quel mestiere da secoli. Oggi però due cose su Maazel vorrei dirle, perché è un musicista che ha accompagnato la mia vita fin da un Falstaff lontanissimo alla Scala, credo 1980, e che ho ascoltato almeno cento volte fra concerti e opere.
I punti sono due. Uno stilistico, uno personale.
Il punto stilistico è che Maazel incarnava per l’ultima volta un tipo preciso di direttore d’orchestra, che è finito con lui. E cioè il direttore americano di stirpe ebraica e di radici nell’Est europeo, che aveva i suoi eroi in Fritz Reiner, Eugene Ormandy, Georg Szell, Erich Leinsdorf e, con una storia un po’ diversa, Georg Solti. Le caratteristiche erano comuni: gesto precisissimo, analisi delle partiture minuziosa, assoluta cognizione delle tecniche di produzione del suono, e soprattutto estrema oggettività e lucidità nello stile. Con tutti loro, qualsiasi brano veniva illuminato da riflettori potentissimi e risplendeva con un nitore cristallino. Il timbro orchestrale era abbagliante, scintillante, compatto. Il fraseggio asciutto, senza smancerie e senza troppo indulgere al mistero. E una volta detto questo, è chiarissimo chi fosse il modello di tutti loro, l’immenso Arturo Toscanini. La presenza di Toscanini in America ne aveva fatto una specie di legislatore musicale: il suo controllo, la sua disciplina, il suo gusto aristocratico si erano riverberati su quella schiatta di direttori. Maazel si era formato in quel mondo e quello era il suo stile.
Insieme con tutto ciò, c’è l’influenza di Stokowski: l’opposto di Toscanini per molti versi. Fantasia, libertà, personalizzazione estrema delle partiture, un elemento dandystico e il senso dell’esecuzione come show. Maazel assorbì anche questa influenza, e glie ne venne una sensualità coloristica meravigliosa.
Veniamo al punto due, quello personale. Come tutti sanno, Maazel poteva essere in due sere di seguito il più grande direttore del mondo e un impeccabile routinier svogliato. Quando voleva, non c’erano confronti. I suoi primi dischi sono sconvolgenti: aggressivi, splendenti di un virtuosismo senza limiti, coloratissimi ma nello stesso tempo un paradigma di agilità e snellezza. Le Sinfonie di Sibelius con i Filarmonici di Vienna, per esempio, il Fidelio con Birgit Nilsson, una stupenda silloge delle Sinfonie di Schubert… Appunto: quando voleva. Quando voleva poteva dirigere la più bella, smagliante, leggera e turbinosa Settima di Beethoven che io abbia mai sentito (salvo quella di Carlos Kleiber, ad essere onesti). E così tante, tantissime altre volte.
Ma non sempre voleva. A volte la sua era una specie di magistrale indifferenza, l’apoteosi della correttezza e del distacco, la perfezione senza amore. Perché?
Credo che questo perché nasconda un problema psicologico enorme, di cui possiamo solo intravedere qualche frammento. Maazel nacque con una quantità di doti (orecchio, memoria, braccio, forza fisica, carisma fin da bambino) impressionante, forse unica. Tutto gli riusciva facilissimo, sicché della musica conosceva solo un versante: gli era preclusa la fatica, l’approssimazione del risultato per gradi, gli erano preclusi gli aspera, per lui esistevano solo gli astra. Forse tutto questo l’ha portato a un disdegno di fondo, e a un’amarezza che non gli rese facilissima la vita. Litigò con quasi tutte le istituzioni dove ricoprì un ruolo stabile: se ne andò quando gli parve che gli altri non fossero alla sua altezza, non fossero adeguati a capirne l’arte. Quando scelsero Abbado come successore di Karajan, annullò i suoi impegni con Berlino. E si rese spesso antipatico (lui che poteva essere amabilissimo): anche al pubblico, che qualche volta lo fischiava perché in certe serate non era Maazel.
Ricordo un Tristano a Salisburgo, con i Filarmonici di Vienna: il primo atto era una cristallografia trasparente, diafana, si ascoltava letteralmente ogni nota. Freddo, molto freddo, ma per me bellissimo. Al momento di tornare sul podio per il secondo atto, Maazel venne subissato di buu e di fischi. Per me era inspiegabile, ma sicuramente la gran parte del pubblico aveva trovato irritante quell’approccio così lucido e anti-romantico. Maazel diresse l’intero secondo atto (dalla mia poltrona lo potevo vedere) tenendo la mano sinistra in tasca. Ruotava solo il polso della destra, tutto lì. La faccia era una maschera dove leggevi disprezzo superciglioso. Fu un secondo atto incandescente, emozionante, esaltante: lui ne ebbe un trionfo personale. Alla fine del terzo atto non si presentò al proscenio. “Voulez-vous de la merde? La voilà”, diceva Bizet dei couplets di Escamillo.
Mi è sembrato, ascoltandolo tante volte e incontrandolo qualche volta, un uomo estremamente complesso, un vincente che masticava amaro (talora aveva la stessa espressione di Charles Boyer nei film dove interpreta lo sconfitto), uno abituato fin da bambino a non lasciare spiragli, a serrare ogni porta. Aveva il garbo del gran signore abituato alla mondanità internazionale; le sue ultime foto sono impressionanti perché mostrano un vecchio, con la barba grigia e corta, che parla di un mondo lontano attraverso i suoi stessi tratti somatici. Si è troppo poco tenuto conto del suo essere ebreo di origine russa: nel suo DNA dovevano esserci anche lo sradicamento, la paura, la troppa intelligenza, il senso di esclusione di cui parla la grande letteratura ebraica mitteleuropea. Maazel ricacciava tutto ciò sotto lo smalto di un virtuosismo illimitato. Quando però, controvoglia, si arrendeva alla parte più profonda di sé, allora diventava il musicista sublime che tante volte ha illuminato le nostre vite.
(P.S. E adesso arriverà immancabile, come è stato per altri direttori, lo sciacallaggio dei concerti “in ricordo”, degli “omaggi”, del “salvataggio” delle istituzioni da lui create)…