Francesco Maria Colombo

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Il più dandy del reame - Francesco Maria Colombo
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Il più dandy del reame

Tutto comincia da una nota su Facebook di Camillo Langone. Camillo chiede ai suoi «amici eleganti» chi sia «oggi, il massimo dandy italiano». Io sono un «amico non elegante» e non mi intendo di dandismo. Ma i pensierini hanno cominciato a zampillare, e ora cerco di metterli in ordine.

1 – Il dandismo ha una matrice letteraria augusta. Baudelaire, ovviamente; ma ancor prima e ancor più Balzac. E ramificazioni altrettanto auguste: Oscar Wilde siamo capaci tutti di citarlo, ma più dandy di lui fu Max Beerbohm, più dandy di Beerbohm Cecil Beaton, più dandy di Beaton Stephen Spender. E così via. Ed è un concetto sottile, quasi metafisico, che non ha molto a che vedere con asole, bottoni e tessuti, bensì con una disciplina interiore, che lo stile (non solo il vestire: i modi, i gesti, il tono, l’attitudine) fa salire in superficie. E già qui capiamo che un conto è il dandismo come esprit, un conto è il dandismo come travestimento (in senso più preciso: pagliacciata. Ma a questo punto la figura di riferimento non è più il dandy bensì il gagà, cui ha dedicato un libro delizioso, colto e pieno di humor, Massimiliano Mocchia di Coggiola).

2 – Quanto all’esprit. La matrice del dandismo è «io vorrei». In alcuni casi vorrei ma non posso, in altri vorrei e posso. Il dandy che non voglia essere dandy non esiste. La connotazione precipua del dandy è l’intenzione. Baudelaire usa sempre il verbo «aspirare» quando parla del dandy. Il dandy aspira a. E poiché, ci insegna Platone, l’aspirare rivela una condizione di mancanza, di indigenza, di privazione cui si vuole supplire (Platone parla dell’amore, ma solo perché ai suoi tempi il dandismo non si chiamava ancora così), la matrice del dandy che aspira all’eleganza, alla sublimità, alla bellezza, è la mancanza di queste qualità. Il dandy aspira a essere elegante, sublime e bello perché non lo è di natura. Ci prova; a volte ci riesce.

3 – In questa aspirazione sta la differenza tra dandismo ed eleganza. L’eleganza non nasce da mancanza ma struttura il possesso di alcune qualità, che il dandy non possiede perché altrimenti non aspirerebbe a essere dandy. La sprezzatura, l’indifferenza, l’inconsapevolezza, un filo di trascuratezza, sono attributi dell’eleganza. Il barone Shūzō Kuki chiamava tutto ciò iki, un termine giapponese che comprende grazia, civetteria e nello stesso tempo rinuncia. La struttura dell’iki è il più elegante trattato sull’eleganza che io conosca.

4 – Detto ciò, infilarsi una giacca di seta amaranto o annodarsi un farfallino o collezionare panciotti o far coincidere la nuance di rosa delle bretelle con quella delle calze (come faceva Maurice Ravel) ha a che fare con il dandismo, ma non ha nulla a che fare con l’eleganza. Se penso agli uomini davvero eleganti che ho conosciuto mi viene in mente il direttore d’orchestra Peter Maag, che indossava alle prove certe camicione a quadri colorati in sé imbarazzanti, ma che su di lui erano elegantissime perché ricevevano un senso dal carisma, dalla cultura, dall’interiorità, dalla profondità intellettuale, dalla dedizione artistica, e soprattutto dalla consistenza spirituale dell’uomo. Non erano ordinarie e non erano una pagliacciata: erano chic perché le indossava lui, che probabilmente le sceglieva a caso.

5 – Detto ancora ciò, una considerazione. C’è un bellissimo film di Vittorio Caprioli, Scusi, facciamo l’amore?, del 1967, lo si può trovare su YouTube. Lallo di San Marciano, un giovane aristocratico napoletano, sale a Milano dopo i funerali del padre, che a Milano viveva, e ne incontra l’ex amante, la contessa Giuditta (la meravigliosa Edwige Feuillère. Mi disse Filippo Crivelli che il personaggio è ispirato a Wally Toscanini), più tutta una serie di belle signore che vivono tra via Cappuccio e via Vivaio, dalle quali si farà amabilmente mantenere. C’è una scena in cui Giuditta parla del padre di Lallo con rimpianto, e mostra a Lallo il guardaroba di lui, di un’eleganza, di uno chic irrecuperabile. Decine di completi di vicuna grigi, decine di grisaglie, nient’altro. Abiti tutti eguali, tagliati tutti eguali in eguali stoffe, indistinguibili l’uno dall’altro. Sicuramente dal taschino di uno di quei completi non è mai uscita punta di fazzoletto che non fosse bianca. Quella è eleganza, ed è forse anche una forma quintessenziata e segreta di dandismo, un dandismo sublimato.

6 – Infine, rifletto su queste cose come su qualsiasi altro tema, con distacco e dal di fuori. Io personalmente non ho mai desiderato essere un dandy, non me ne è mai fregato niente, e non sono un uomo elegante (mio padre lo era, a modo suo: perché era semplicemente se stesso, e questo si traduceva in una aisance che io non possiedo). Per il dandismo ho una repulsione non belligerante. Per l’eleganza un’ammirazione non coinvolta. Per chi impieghi più di 30 secondi a decidere cosa mettersi addosso invoco la miniera. Ma ho letto i Mémoires di Boni de Castellane, del principe Youssoupoff, tutti i libri di Philippe Juillian, l’Histoire de la politesse di Rouvillois… brutto segno…

(Nella foto, Carlo Mollino)