Lui così amato
Chi entri nel mio studio vede subito una piccola raccolta di fotografie nelle quali sono in compagnia di alcuni dei grandi musicisti che hanno segnato la mia vita. Ci sono Gian Carlo Menotti, Carlo Maria Giulini, Magda Olivero, purtroppo non c’è Gianandrea Gavazzeni che è stato un Amico (se così si può chiamare per la confidenza cui un mostro sacro ammetteva un ragazzetto saccente) impareggiabile; e c’è Georges Prêtre. La foto è stata scattata a casa di suo figlio, a Louveciennes. Fino a ieri Prêtre era ancora vivo: adesso che non c’è più capisco che un bel pezzo della mia vita se ne è andato. Sono amico di alcuni ottimi musicisti, ma non c’è nessuno che possa stare in quel piccolo catalogo fotografico: erano le stelle della mia Pleiade interiore, e adesso vivono nel ricordo.
Potrei dire tante cose di Georges Prêtre, che tutti amavamo perché era un uomo splendido, di un fascino, di un’apertura, di un’allegria, di una vitalità meravigliosa. Di tanti episodi ricordo una sera, a Lucerna, anni Novanta. Lui aveva diretto i Wiener Philharmoniker. Io ero stato al concerto e avevo poi fatto una lunga passeggiata sul lago, prevedendo di rientrare in albergo dove avevo comandato un repas. Scendendo nella sala da pranzo (quelle immense sale da pranzo di certi alberghi storici della Svizzera, con le vetrate sul lago, di una malinconia persino affascinante) trovai tutti i tavoli deserti, tranne il mio che mi attendeva e quello, dalla parte opposta della sala (sarà stato a 30 metri di distanza), dove sedeva il Maestro, solo, quasi rimpicciolito dallo spazio vuoto che ci separava. Andai a salutarlo sperando di non disturbare, e lui (che avevo incontrato a Parigi pochi mesi prima) mi invitò a fargli compagnia. Fu una delle conversazioni sulla musica più belle che la vita mi abbia regalato: una conversazione lunghissima, fino a notte fonda. Ne usciva il ritratto di un uomo per il quale quell’assurdo che è la vita (e quell’assurdo che è la musica, che la rispecchia) è un’espressione fiera della felicità. Ho incontrato poche persone, in 52 anni, che mi abbiano dato l’idea di essere davvero felici (e «la felicità non è una cosa gaia», come scrive Maupassant: la felicità è fatta anche di lotta, di sofferenza, di opposizione) come Georges Prêtre.
L’avrei poi incontrato ancora diverse volte, e diverse volte ancora avrei assistito ai suoi concerti, ogni sera uscendone con la sensazione e la certezza che la vita è un dono, non sappiamo di chi (Prêtre, che era un uomo molto religioso, lo sapeva), non sappiamo perché. Quando venne alla Scala l’ultima volta, meno di un anno fa, accettò di posare per me, e gli scattai delle fotografie che oggi riguardo con commozione. Fu l’ultima volta che lo vidi.
E’ sempre più difficile (soprattutto, più inutile) per me scrivere di musica. Non lo faccio quasi mai, ma l’anno scorso, in occasione del ritorno a Milano del Maestro, il direttore della Sala Stampa della Scala mi fece il regalo di chiedermi un piccolo ricordo personale, che fu pubblicato dal Teatro in quell’occasione. Lo ripubblico qui, non perché ci sia scritto nulla di speciale, ma perché di uomini così bisogna parlare il più possibile, ricordarsi che ci sono, che illuminano la nostra vita, che rappresentano molte delle nostre aspirazioni. Dunque, eccolo. L’ho scritto il 12 gennaio 2016.
«Ricordo il primo concerto di Georges Prêtre cui ho assistito alla Scala. Erano i primi anni Ottanta e dal loggione ascoltai una versione di Così parlò Zarathustra completamente diversa rispetto alla scuola dei dischi sui quale mi ero formato: Strauss stesso, Krauss, Böhm, Karajan. Non sembrava più un poema sinfonico radicato nella tradizione germanica. Era come vedere Klimt trasformarsi in Monet e sciogliervisi: tutto scintillava in un modo così fluido, così flessuoso, così sensuale da trasformare il significato del brano, rivelandone una natura segreta. Una natura autentica? Forse no, ma come resistere a tanta bellezza?
Quella sera capii tre cose: la prima era che il direttore d’orchestra che avevo davanti era una personalità eccezionale, capace di rivelare qualcosa che non avrei mai creduto possibile. La seconda era che la musica può essere diretta in molti modi, come esercizio di comando, come scolpitura di una struttura, come analisi di un lessico: ma che Prêtre la dirigeva facendo all’amore con essa. Non è mai esistito un direttore capace di un rapporto così erotico con la musica (tranne forse De Sabata). La terza è che la rivelazione dell’arte, la sua capacità di trasformare la nostra vita, non passa solo attraverso ciò che è credibile e “giusto”, ma anche attraverso il rischio, l’eccesso, l’abbandono.
Da allora sono passati molti anni; alla Scala Prêtre resta uno dei direttori più amati, il decano fra tutti. È fra i pochissimi, con Yuri Temirkanov e Iván Fischer, a farci iniziare ad ascoltare un concerto senza poter immaginare quello che accadrà, a condurci per sentieri sconosciuti, di cui magari non capiamo subito il senso: e quello che ci aspetta al termine del cammino è qualcosa che investe non solo la nostra coscienza musicale ma la nostra vita intiera.
“Un esercizio inconsapevole di metafisica” era la definizione che della musica dava Schopenhauer. Sarà, ma con Georges Prêtre la musica è piuttosto una bellissima, capricciosa jeune fille en fleur: e noi stiamo con lui.»