Francesco Maria Colombo

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Quanti like a Buenos Aires? - Francesco Maria Colombo
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Quanti like a Buenos Aires?

Qui a Buenos Aires faccio le cose che ho sempre fatto quando non ho impegni. Faccio il flâneur, faccio il fotografo (della domenica anche quando il giorno è feriale), giro per le librerie, consumo le scarpe (ma in Argentina fanno mocassini altrettanto belli che in Inghilterra), cerco la luce più preziosa per ogni zona della città, scelgo e frequento i ristoranti e i caffè, e naturalmente sto con le persone la cui conversazione non mi annoia. Le cose che ho iniziato a fare quando avevo 16 anni. Solo che adesso c’è un obbligo in più. Ed è quello di essere attivo sui social network.

Non basta passeggiare. Bisogna aggiornare il tuo pubblico, più volte al giorno: dirgli cosa fai e cosa pensi, spingerlo a votare sì o no, indottrinarlo sulle dittature cubane, fargli l’elenco dei film preferiti, dei compositori più amati, della birra più buona, dei quadri più belli, della giacca da mettere e da non mettere, della pagina del kamasutra più efficace. E devi fargli capire che sei up-to-date, attivo, aggiornato, privo di dubbi; che stai avendo successo, che viaggi dappertutto nei posti più fighi, che ti vedi con gente bella, sorridente e vincente, che dappertutto tutti ti amano e ti fanno festa. E devi prendere più like, e per prendere più like devi unire Facebook a Instagram, Instagram a Twitter, Twitter a Tumblr. E devi capire cos’è il profilo e cos’è la pagina. E se ti fermi un attimo per bere il mate in un bar di Buenos Aires sei perduto, perché nessuno si ricorderà più di te (a meno che posti: “Sto bevendo il mate”). Sei un loser. Sei nessuno.

Tutti facciamo così. La nostra è la prima generazione ad aver vissuto la rivoluzione copernicana della comunicazione: di gestirla non siamo capaci, la cavalchiamo come possiamo, chi goffamente chi con furbizia. Mi piacerebbe dire che non ci sto. Che passeggio per Buenos Aires senza dover ricordarmi di postare l’ultima stupidaggine delle mie giornate, senza dover dimostrare che sono sulla cresta dell’onda e che l’Argentina intera sta ai miei piedi. Perché i like, il seguito, i follower, le lusinghe, la costruzione del mio (malandato) personaggio sono cose che non hanno niente, niente, niente a che vedere con i miei valori, con il mio valore, con la mia felicità, con la mia serenità, con la mia identità. Sono un luna park fittizio dove non esistiamo più per quello che siamo realmente ma per l’immaginaria e spesso involontaria connessione che creiamo con figure che in realtà non fanno parte della nostra vita. Qualche settimana fa è morto Dario Fo, e un mio amico, persona non ingenua ed anzi coltissima e avvedutissima, ha scritto su Facebook qualcosa come: “Ciao Dario, salutami Franca”. Ha passato una trentina di estati in barca con loro? Si sentivano al telefono tutte le sere? No. Nella vita vera il mio amico inorridirebbe per una frase siffatta; ma su Facebook gli è possibile scrivere “ciao Dario, salutami Franca” perché il lessico surrettizio della comunicazione ha stravolto le proporzioni della nostra connessione con il reale. Non solo il mio amico: tutti noi, me compreso, abbiamo scritto frasi del genere, o abbiamo postato foto del genere, o abbiamo fatto selfie del genere. Io non pubblico i selfie, ma in realtà tutto quel che scrivo è un selfie. Tutto quel che ciascuno di noi scrive su queste diaboliche pagine è un selfie. E mi piacerebbe scendere, per un attimo, dalle montagne russe.

Non è così semplice. I social network sono opportunità incredibili. Senza Facebook io non avrei mai conosciuto tante persone che sono entrate nella mia vita reale. Senza Facebook io non avrei mai pubblicato una fotografia, figuriamoci tre libri. La velocità, la facilità, la propulsività di questo mezzo è senza eguali. Ma la lentezza, come insegna Kundera, ha un suo valore inestimabile, e lo hanno la pudicizia, il segreto, il mistero, la discrezione, la privatezza. E ha un valore inestimabile potersi permettere di essere, secondo i parametri diffusi, un loser, uno che non è sulla cresta dell’onda, uno che non ha tutto questo gran successo, uno che non fa dipendere la propria felicità dalle foto che lo ritraggono in un cocktail party luminoso e fragoroso, e in fin dei conti uno che vive con il medesimo equilibrio l’avere zero like o un milione di like, perché se i like contano qualcosa per farci sentire vivi e vincenti, vuol dire che non stiamo tanto bene.

Ecco ho detto le mie quattro fesserie giornaliere. Adesso non mi resta che pubblicarle su Facebook e contare quanti like prendo. Il cane di Pavolv era un dilettante, rispetto a noi tutti.

(La foto di Buenos Aires invasa dalla giacaranda fiorita è mia)