Francesco Maria Colombo

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Ma non chiamatela tradizione - Francesco Maria Colombo
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Ma non chiamatela tradizione

Ho ascoltato La traviata innumerevoli volte. Non l’ho mai diretta (Violetta l’ha scampata bella) ma in teatro ho desiderato e compianto questo meraviglioso personaggio per mille e mille sere. Di tante Traviate si è smarrito il ricordo, o solo frammenti senza nome ne affiorano: come di quelle donne che si sono amate per una sera, e di cui tanti anni dopo l’unica immagine che resta è un polso illuminato dall’abat-jour in una stanza buia, o una gota sudata. Que reste-t-il de nos amours, etc. etc. Di tante Traviate quelle davvero importanti che ho ascoltato… vediamo un po’… quella diretta da Kleiber, a Firenze ma soprattutto a Monaco con la Gruberova, la più palpitante e dolorosa; quella elegantissima con Solti a Londra, quando si rivelò la giovane Gheorghiu; quella, lontana dal mio gusto ma diretta con una sontuosità e una perentorietà straordinarie, di Muti alla Scala e a Salisburgo (mi ricordo una Violetta tragica, commoventissima: Viktoria Loukianetz); quella di Massimo de Bernart, la più sofferta, la più vivida di tutte, a Macerata. Più quelle in disco: la versione di Toscanini, che per la serratezza e la luminosità argentea del suono non è mai più stata raggiunta (peccato che sia cantata così male); lo stupendo e fischiatissimo live dalla Scala di Karajan; le due versioni più chic, Monteux e Prêtre (quest’ultimo con la Caballé!)…

Così mi ritrovo, con tutto questo harem di Traviate nella testa, a riascoltare La traviata alla Scala iersera, diretta da uno dei miei miti, Nello Santi. Da lui avevo ascoltato una bellissima Traviata a Venezia tanti anni fa (la recensii per il Corriere guadagnando espettorazioni di bile a diversi direttori d’orchestra), e quando sono arrivato in teatro ero curioso di vedere cosa riuscisse a fare questo «patriarca», questo «custode della tradizione» come tutti l’hanno chiamato in questi giorni. E ho ascoltato una Traviata che della tradizione ha un solo aspetto, ma che per il resto è personalissima, originalissima, lontana dalla routine sia nella concezione sia nell’attuazione. Può piacere o non piacere, ovviamente: ma dire che questa sia la tradizione vuol dire procedere per luoghi comuni e non sapere ascoltare. (Ma pretendere che il 90 per cento dei critici musicali sappiano ascoltare, e abbiano i mezzi culturali, musicali, tecnici e di cognizione storica, per capire qualcosa, vuol dire essere di un’ingenuità sesquipedale. Nel 90 per cento dei casi sono dei tetri scalzacani cui la roulette, o la dabbenaggine dei direttori, ha affidato un calamo e una cattedra sulla quale i tarli compiono giorno dopo giorno la loro opera: non sanno niente, non hanno studiato niente, non sanno cosa c’è scritto nella Traviata, non sanno come si è cantata La traviata nella sua storia, non sanno la lingua italiana, non sanno che c’è un Dumas padre e un Dumas figlio).

Questa storia della tradizione cosa vuol dire? Vuol dire tutta una serie di idola theatri secondo i quali Verdi (il «Peppino») sarebbe, nella sua profonda essenza, un compositore italianissimo e nazional-popolare. Dunque grandi melodie, dunque zum-pa-pa, dunque canto sopra e orchestra sotto, dunque (negli interpreti) poche idee e molta esperienza e molta routine. Ma tutto questo con Giuseppe Verdi (che nemmeno sua moglie si sarebbe mai permessa di chiamare «Peppino»: lo chiamava «il mago») non ha nulla a che vedere. Verdi è un compositore che già all’epoca della Traviata conosce benissimo il panorama non solo musicale ma culturale dell’intera Europa, legge il francese perfettamente, e ambienta a Parigi il suo capolavoro creando una tinta (la parola, come si sa, è sua) fatuo-frivola-salottiera-tout-Paris che è incredibilmente precisa per uno che sia nato alle Roncole. Se c’è un’opera anti-tradizionale, un compositore anti-tradizionale, un’operazione culturale anti-tradizionale, eccoli qui: non a caso La traviata cadde, alla prima. Era troppo moderna, e non solo per l’argomento.

Dunque arriva alla Scala Nello Santi, con il suo adorabile aspetto da personaggio goldoniano, da tutti dipinto come Monsieur Tradizione (sia dai suoi ammiratori, sia dai suoi detrattori), e cosa fa? Una Traviata nazional-popolare? Ma neanche per sogno. Fa una Traviata che è la più ricca di pianissimo, e i cui pianissimo sono i più ricchi di trasparenza e di luce, che io abbia mai sentito, la più sdegnosa di facili effetti, la più cesellata nel dettaglio (talvolta, però, con qualche imprecisione) che si possa immaginare. Ripeto: può piacere o non piacere; ma la si ascolti per quel che è.

Esempi: moltissimi, uno dopo l’altro. Lo stacco del Brindisi, leggero, snello, dal ritmo posato come è giusto trattandosi di una Valse francese, e spesso raccolto in un piano sonoro di straordinaria delicatezza (parlo dell’orchestra e parlo di quell’interprete elegante e intelligente che è Francesco Meli, che fraseggiava esattamente come l’orchestra). Il cuscino di velluto di «Un dì, felice», che permetteva al tenore di cantare magnificamente a fior di labbra (e canta di cose eteree, di balenii, di tremori), con quell’unico «Fa» del corno sulle parole «misterïoso, altero» che non ho mai ascoltato così lontano, così arcano come ieri: un miracolo di Verdi, del mio omonimo Piave, di Santi e del professore di corno: in una singola nota c’è tutto il dolore di questo giovane uomo che ha visto una volta la Traviata, e da allora quell’immagine non è più uscita dal suo cuore. Il fraseggio della Romanza del baritono, dove il «La bemolle» interno delle viole, crescendo e decrescendo, ribalta il tradizionale approccio che vuole il ritmo chiaro e l’armonia fissa: qui Santi dissolve il ritmo in una cantilena che ha qualcosa di sognante, di (ancora una volta) lontano, ed è la funzione armonica di quella nota a fungere da chiave di volta della pagina. E potrei continuare con tantissimi altri esempi, ricordando nello stesso tempo che questi fraseggi così sensibili (fino, talvolta, all’estenuazione: Preludio all’ultim’atto) e questi pianissimo così raffinati, non privano la musica di nettezza e di una pulsione interna che invece c’è, sensibile, sanguigna e incalzante (solitamente se ne prendono carico i ribattuto dei secondi violini e delle viole), e che paradossalmente riceve un certo mordente dagli stacchi di tempo piuttosto lenti. Come sempre non sono i metronomi a contare, ma il rapporto che i metronomi instaurano con il tipo di suono, con il rilievo polifonico delle parti (iersera chiarissime), con la denotazione della parola scenica. Dove vuol essere brillante (inizio del secondo atto, seconda parte) Santi lo è; dove invece allenta il tempo non lo fa a caso, ma per una scelta di poetica che (ripeto per la terza volta) può non piacere, ma che è assolutamente personale, legata all’individualità dell’interprete, e lontana dai luoghi comuni di ciò che s’intende per tradizione. In un solo elemento Santi è «tradizionale»: e, anzi, «vecchio»: nei tagli alla partitura. Oggi non si usano più: ma io, se non sono stupido, rispetto anche la storia di un uomo che è nato quasi novant’anni fa, e che dirigeva già al Metropolitan di New York quando io non avevo ancora emesso il primo vagito.

Detto questo, iersera è stata la serata di Anna Netrebko, e sarebbe bastata la seconda strofa dell’«Addio del passato», di una drammaticità severa e disperata, a renderla una serata indimenticabile. La Netrebko canta tutta Violetta e tutta non solo la domina, ma la è: nello slancio ebbro delle colorature nel prim’atto, nei momenti in cui rientra in se stessa e rende la propria ingentissima voce una piccola cosa calda e tremante che stilla dolore («Dite alla giovine»); nei momenti di sensualità; nel finale, quando muore su quel terribile ritmo, il ritmo su cui muoiono eroi e martiri («Prendi, questa è l’immagine», la definizione è di Massimo Mila). Ha una voce meravigliosa, un’intelligenza teatrale, un carisma, una personalità che mi fanno pensare, riandando alle grandi interpreti storiche, non alle diversissime Olivero, Callas, Tebaldi, Scotto, ma a una cantante capace di tanto imperio e di tanto soffrire, l’immensa Claudia Muzio. Ma la Netrebko è una Muzio che pensa, si muove, comunica, si emoziona come una donna del 2017.

Infine: Leo Nucci è un gran veterano, Chiara Isotton un’eccellente Flora, la regìa è bozzettistica senza troppi danni, scene e costumi sono bellissimi ma sproporzionati (era toccante la vecchia Traviata di Pierluigi Samaritani, dove Violetta moriva in una corsia di ospedale parigino: alla Balzac). E post infine: chi ha suonato il clarinetto iersera (La traviata contiene forse il tema più bello mai affidato al clarinetto in tutta la sua storia, Mozart e Brahms compresi) ha la mia gratitudine per tutta la vita.