Francesco Maria Colombo

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Salvo che il nome la frase è uguale - Francesco Maria Colombo
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Salvo che il nome la frase è uguale

Vi ricordate L’avversario, il romanzo di Emmanuel Carrère e il film con Daniel Auteuil, la storia di quel falso medico ginevrino che, dopo anni e anni in cui raccontava di avere una vita in realtà mai vissuta, ha sterminato la famiglia? Vi ricordate cosa dicono le comari di Windsor quando ricevono le lettere di Falstaff? «Ma come? / Che cosa dice? / Salvo che il nome / la frase è uguale». Pare che anche nelle arti si pratichi la falsificazione. Spacciare fotografie altrui per proprie, pubblicare registrazioni musicali che ricalcano in modo identico vecchie incisioni altrui, cambiare firma su tele già dipinte… Qui non voglio parlare di singoli episodi sui quali non ho titolo a pronunciarmi, e per i quali deve valere la regola della presunzione di innocenza. Mi interessa piuttosto il perché psicologico di simili suicidi sociali (giacché, da quando la realtà è mensurabile con gli strumenti dell’informatica, prima o poi si viene sgamati).

Com’è possibile che un artista (parlo in generale, senza alcun riferimento specifico), la cui consistenza risiede in nient’altro che nell’unicità, specificità e individualità della propria arte, possa appropriarsi dell’arte altrui? La rinuncia alla propria identità è una delle più spaventose privazioni di libertà che possano capitare a un essere umano. E come potrebbe un simile artista, una volta scoperto il trucco, uscire di casa, presentarsi alle istituzioni, accettare di essere intervistato sui giornali, insegnare ai propri allievi? Cosa potrebbe dire ai suoi allievi? Con che faccia potrebbe guardarli negli occhi?

La mia risposta è questa. Finché viviamo la duplice vita di quel che siamo e di quel che scegliamo di apparire, avendo a disposizione la ribalta dei social network, ci sarà facile perdere le coordinate della realtà. Ci sono su Facebook diverse pagine di fotografi che non hanno mai pubblicato una foto (se non di qualche ragazzotta sprovveduta, in pose contorte sul letto di un motel) ma che spacciano per proprie le fotografie di maestri del passato e del presente, come se Google Images non esistesse. Hanno sempre il proprio sito «in manutenzione», dicono di essere sempre «sul set» per «un giornale importante», un «brand famosissimo», ma non dicono mai quale perché tenuti «per contratto» alla riservatezza. E sono capaci di effusioni liriche sulle proprie fidanzate «di un tempo», che però hanno la faccia di riconoscibilissime modelle. Dicono di postare «dall’aeroporto di Singapore» laddove probabilmente postano, in pigiama alle 4 di pomeriggio, dal tinello della Ciociaria. Ma poiché al mondo piace farsi ingannare, sono pieni di fan, di follower, di like, di consensi, di commenti, di entusiasmi, di innamorate che li concupiscono. E a quel punto, questa è la mia risposta, finiscono per crederci (alla Tartarino di Tarascona).

Chi conta i like, chi conta i commenti, chi esalta chi è d’accordo e banna chi non è d’accordo, chi posta su Facebook ogni quarto d’ora, chi ha sostituito il fare della vita («non basta volere, occorre fare», diceva Goethe) con il postare della bacheca; chi s’ingrazia i suoi pari distribuendo i propri like e compiacendosi delle restituzioni, è a un passo da una falsificazione dei valori così radicale da non poter tornare più indietro. In ultimo si finisce per crederci, perché la logica dei like e dei commenti è immediata, fresca, gratificante, consolante, laddove il farsi strada nella vita richiede sacrificio, sforzo, rischio, umiltà e un’ambizione più solida che non piacere ai social mates. Il fotografo che posta Natalia Vodianova dal tinello della Ciociaria dicendo «ci siamo graffiati l’anima», secondo me alla fine non può più tornare indietro, a quel punto deve crederci, altrimenti si spara. C’è una certa corrispondenza (con evidenti eccezioni) tra la quantità del tempo che dedichiamo ai like, ai commenti, al cazzeggio corrivo o raffinato e così via, e il non avere uno scopo e un’attività concreta nella vita; tra la coazione a pubblicare e a pubblicarci, e il non avere una beata mazza da fare se non pubblicare e pubblicarci. I singoli episodi di falsificazione (qualora verificati per tali) possono essere terribilmente tristi (oltre a presentare un lato atrocemente comico), ma sono pure un utile campanello d’allarme per tutti noi.