Con desiderio
Il concerto incomincia con una gaffe assurda e con un Beethoven quasi assurdo quanto la gaffe. La solita voce gentile si spande per la sala (quel gioiello del Donizetti di Bergamo, con l’allegra volta affrescata dal Domeneghini) ma non chiede solamente di spengere i cellulari: annuncia che il pianista Seong-Jin Cho sarà lieto di incontrare il pubblico durante l’intervallo e di firmare i suoi cd, ma per sua esplicita richiesta non si presterà ai selfie e agli autografi sui programmi di sala. What?! Ma quanto è antipatico questo Seong-Jin Cho? I dischi sì e il programma di sala no? In questi casi la risposta è una sola e incomincia con vaffa.
Bien, più o meno ci rimettiamo in carreggiata e il concerto comincia. Il pianista «no selfie» ha vinto il più importante concorso del mondo, il premio Chopin: e ha inciso un paio di dischi che a me sono piaciuti molto. Personalità, colore, slancio, cura del dettaglio, un vero artista, e mi aspettavo moltissimo ascoltandolo dal vivo. Oltre tutto mi si diceva che suona Mozart ancora meglio di come suona Chopin, e nessuno più di me è contento quando la musica trova una nuova voce. Ma, sarà perché i dischi, ultimamente, non sono la cosa più credibile del mondo, la delusione è stata totale. Terzo Concerto di Beethoven. Quando ero giovane i pianisti che suonavano questo pezzo, i punti di riferimento, erano artisti diversissimi tra loro ma accomunati da qualcosa (lo spirito del tempo, ogni Zeit ha il proprio Geist) che allora aveva grande importanza: lo scavo, la ricerca, l’andare in profondità. Gilels lo intendeva a modo suo, Pollini a modo suo, Gulda a modo suo, Richter a modo suo, Ashkenazy a modo suo: ma tutti facevano sentire che Beethoven non ha creato dei carillon risonanti, ma delle strutture complesse dentro le quali c’è, insieme con la tenerezza, la coerenza, la tensione, la lotta con il Fato, chiamiamola come vogliamo ma era una cosa molto seria e molto eroica.
Quello spirito del tempo, com’è normale, non c’è più: ma al suo posto si è accasata una tendenza al cesello e alla decorazione, e soprattutto al suonare così come viene. Non ci sono mai stati così tanti bravi pianisti, ma la tendenza è preoccupante quando si ascolta un concerto come quello di iersera. Il coreano suona bene, ma spolpa e disossa Beethoven, ne fa una mousse, la accomoda in un aspic delizioso e guarnisce l’aspic con verdurine di stagione. Mai sentito il Terzo Concerto così privato dell’energia e del peso che gli sono propri. Tutto gentile, tutto leziosetto, tutto «mi scusi, la disturbo?, ma no, prego, passi pure; ma no, dopo di lei; si figuri, come potrei?» e così via. Per giunta il pianista avrà provato sì e no un’oretta con Temirkanov e la Filarmonica di San Pietroburgo. Non c’entravano per nulla, e lo stesso Temirkanov avrà messo su il concerto in mezza prova: c’erano alcuni momenti bellissimi ma nell’insieme la barca imbarcava acqua da tutte le parti.
E questo è quanto. Dopo Beethoven, il pianista ha suonato la Polonaise in La bemolle maggiore di Chopin come fosse un Minuetto di Boccherini, e noi siamo usciti a prendere una boccata d’aria sotto il dolce cielo bergamasco.
Poi è arrivata la Quinta Sinfonia di Čajkovskij e lì ho ringraziato il Cielo (quello bergamasco e quello universale) di non fare più il critico musicale. Non si può spiegare. Si può tentare di descrivere, con le metafore inevitabili quando si parla di musica, un certo tipo di qualità del suono e di fraseggio; ma non si può spiegare, perché come Temirkanov e i suoi suonano Čajkovskij è, dopo tutte le illustrazioni tecniche che si vogliano tentare, un mistero. A un certo punto, nel secondo movimento, Čajkovskij scrive uno dei temi più belli usciti dal suo calamo (che è quello del più grande melodista dell’Ottocento), e in partitura aggiunge due parole misteriose, «con desiderio». Come si fa a suonare con desiderio? Quale colpo d’arco, quale accento corrisponderà alle sorrise parolette brevi? Non so cos’abbia pensato Temirkanov, ma io penso che «con desiderio» voglia dire che alla musica manca qualcosa, che la musica cerca, scava, annaspa perfino, perché aspira a una compiutezza e a una felicità che non possiede: di lì lo struggimento e la disperazione, che il desiderio postula. Se in Čajkovskij il direttore d’orchestra non fa sentire questo struggimento e questa disperazione, gli è sfuggita la cosa fondamentale. Ma se riesce a fraseggiare con l’elasticità, i ritenuto e i rubato, la mutevolezza dell’agogica che non si confina alla voce superiore ma si spinge alle voci interne, facendole cangianti; se riesce a costruire i lunghi crescendo come qualcosa che monta lentamente, e dentro quella tensione a lasciar battere l’extrasistole di un cuore; se infine sfoga la magniloquenza della frase consegnandosi alla sofferenza e al cordoglio, allora quella musica diviene una verità che non ha nome, ma che tutti noi sappiamo abitare la parte nascosta della nostra coscienza, l’emozione condivisa per arcano accordo tra tutti i viventi.
Non ho mai sentito, nemmeno da Temirkanov stesso, una Quinta Sinfonia così angosciata. L’esposizione dell’idée fixe, nelle prime battute, era lentissima, il colore listato a lutto. La qualità del vibrato, negli archi gravi, era tale da lasciar intendere il movimento dell’aria intorno alla corda premuta. Gli accenti erano un grido che non riesce a farsi sentire. Impressionante ma anche terribile. E tutta l’esecuzione continuava su questa linea dolorosissima, il cui contrappeso erano momenti di puro abbandono alla bellezza: il fraseggio del secondo tema nel primo movimento, di delicatezza meravigliosa; il canto del corno, assorto, quasi impallidito, alonato da una luce boreale, all’inizio del secondo movimento; il Valzer senza il battere, staccato da terra. Sono le cose che solo Temirkanov sa fare, e che un’orchestra di smisurata violenza e di smisurata eleganza come la sua traduce in un’identità inequivoca e antica. L’orchestra «di» Čajkovskij e «per» Čajkovskij è questa. Tutte le altre ci provano.
Chissà cos’abbia dentro di sé quest’uomo così enigmatico, che inforca gli occhiali e legge la partitura dopo aver diretto quella musica forse un milione di volte, e il cui sorriso ha sempre qualcosa di triste. Chissà come sia la sua vita, quali siano i suoi pensieri. Mi ricordo di una sera, tanti anni fa, a Venezia: l’unica volta in cui abbia conversato con lui al di là delle frasi convenzionali. Era autorevole, ma anche dolce e piuttosto simpatico, si divertiva a disegnare delle caricature e ne aveva un certo talento. Ma si avvertiva qualcosa di separato e di protetto in una zona inaccessibile, il cui unico veicolo è la musica. E alla fine è questo che mi prende: non sono nemmeno le note e il bel suono. E’ quell’intermittenza misteriosa che la vita ci destina senza prepararci. E’ essere lì, prima del concerto, seduto a un tavolino del Caffè Balzer, con la gioia di sapere quel che verrà e la sorpresa di ritrovare il me stesso di quando avevo vent’anni e sedevo agli stessi tavolini, e il colore dell’aria era lo stesso, lo stesso il colore della pietra, le stesse scatole di polenta e osei sopra la fila delle bottiglie dietro il bancone del bar, le stesse seggiole, il mio volto che riconosco a mala pena (ero un ragazzo magro, con un collo lungo e una gran massa di capelli) e che tuttavia, chissà come e perché, non poteva essere che il mio e quello di nessun altro. Sono il passo di chi si affretta in teatro, le chiacchiere di chi indugia, il tintinnio delle caraffe, il sapore del caffè shakerato; la luce che digrada; un filo di fresco vespertino; e tutti quelli che c’erano e non ci sono più (primo fra tutti Gianandrea Gavazzeni). E sentire che un frammento minuscolo del 1985 o del 1991 si è staccato dal deposito del tempo e mi ha raggiunto, facendomi stringere il cuore, nel 2017. E sapere che magari tornerò a sedermi al tavolino del Caffè Balzer tra vent’anni, e magari (se sarò fortunato) tra vent’anni ancora dopo. E poi sarò anch’io uno di quelli che ci sono stati e non ci sono più, che si ricordano sempre meno ma che hanno vissuto tutto questo, l’aria della sera bergamasca, l’eccitazione per il concerto, la bellezza del fraseggio di Temirkanov, persino il pianista «no selfie», e che per tutto questo hanno patito e si sono commossi, e nessuno ci saprà mai spiegare perché.