Francesco Maria Colombo

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Il primo sole - Francesco Maria Colombo
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Il primo sole

Ancora sulla Bohème, dopo la recita di iersera alla Scala. E’ forse la prima volta (anche se non tutto mi piaceva dell’esecuzione: ma la rivelazione della bellezza di un’opera passa spesso attraverso le letture meno riuscite) che sento di amare quest’opera per ciò che è veramente, non solo per la sua perfezione ma per il suo contenuto emotivo. L’ingresso in scena di Mimì è pari ad altre meravigliose rivelazioni della femminilità in Puccini: l’ingresso di Butterfly, con il ciangottare delle ragazze giapponesi e l’arco luminoso della melodia di Cio-Cio-San; e, più grande di ogni cosa, lo squarcio immenso di bellezza e di dolore quando Minnie entra in un mondo fatto solo di uomini, nel saloon della Fanciulla del West. Mimì è il contrario: quella musica è timida, fragilissima, ma tocca una verità emotiva che ora riconosco, sento mia.

Sulla Bohème avevo scritto un piccolo saggio un po’ di anni fa: quando appunto scrivevo (oggi scrivo solo la lista delle medicine da comprare e questo blog). Massì, ripubblichiamolo qua. In fondo penso ancora tutte le cose che vi avevo scritto.

Il primo sole

“Di Bohème ce n’è una” diceva Puccini, riferendosi all’opera omonima di Leoncavallo, destinata ad essere eclissata. Aveva ragione, non solo perché la propria Bohème è incomparabilmente più felice e ispirata di quella del collega, ma perché il tema dell’opera è così vicino alla sensibilità pucciniana da specchiarla segretamente e, diciamo così, furtivamente.

Il tema si spiega in breve: è la fragilità e la natura effimera dell’amore e di ogni slancio felice. La Bohème è un perfetto meccanismo teatrale, dove non si potrebbe togliere o aggiungere una scena e dove i tempi sono scanditi con straordinaria intelligenza di calcolo: ma è anche, e in un senso più profondo, un abbraccio fra amore e morte così rapido e febbrile da stabilire la simultaneità degli elementi. Non si dà amore senza morte, sembra dirci Puccini: il “timing” stringatissimo della vicenda accorcia la distanza psicologica fra l’una e l’altra cosa, le fa guardare in volto l’una nell’altra, con spavento ma pure con una strana e morbosa attrazione. Così l’ingresso in scena di Mimì è l’apparizione di una creatura segnata: tossicchiante, freddolosa, timida, malinconica, Mimì ci si presenta circondata dagli stessi temi (“Che gelida manina”, il motivo che Rodolfo introduce e che lei stessa farà suo e farà vero nel finale dell’opera) che l’accompagneranno nell’ultima scena. “Il primo sole è mio”, canta in una frase indimenticabile, una di quelle espansioni melodiche che dopo Puccini la musica non conoscerà mai più: non il sole pieno e forte di mezzogiorno ma “il primo sole”, l’annuncio di una felicità che non potrà concretarsi e permanere.

Ma tutta La Bohème si svolge all’insegna dell’incertezza: come pagare l’affitto, come sbarcare il lunario, come ritrovare la fiducia dopo che la tua donna ti ha tradito, come arrivare a primavera quando la tubercolosi abita dentro di te, e piano piano ti smangia. Quel che trasforma tutto ciò, e lo rende vivido e smagliante sottraendolo al pericolo della retorica lagnosa, è l’amore per la vita illimitato, vorace e sensuale e spasmodico, che resiste a tutte le paure; o meglio, che è così forte proprio perché in ogni istante il pericolo è vicino. Poveri, smarriti, inappagati negli affetti, i ragazzi della Bohème amano la vita come se ciascun istante fosse l’ultimo: colmando di struggimento ogni immagine, ogni colore e profumo che l’esistenza ci presenta; avvertendo nelle spoglie dimesse di una cuffietta, di un manicotto, della crema da gustare al caffè, in uno scherzo da giocare a un vecchio scemo (Benoit o Alcindoro), e soprattutto in uno sguardo o in un sorriso o nel movimento di una caviglia femminile, l’avvisaglia di una compiutezza che non potrà manifestarsi. Proprio perché la vita è breve e incalzata dalla fine, tutto sembra la promessa indicibile di una gioia revocata.

A ciascun oggetto, a ciascuna atmosfera toccata dalla Bohème Puccini regala questo respiro stringicuore. Le scene di ballo dei bohèmiens nel quarto atto, con le meravigliose citazioni comiche delle danze nobili, è un esercizio stilistico sciolto in alata naturalezza: ma noi “sappiamo” che su quella letizia si abbatterà l’accordo di Mi minore che annuncia l’ingresso in scena di Musetta e la morte di Mimì. Non possiamo dire dove e come, ma quell’accordo è nell’aria: è la certezza che tutto finisce e, come diceva Murger (l’autore del romanzo che ha ispirato l’opera), “la jeunesse n’a qu’un temps”.

E’ forse vero che la giovinezza è la stagione dei dolori più acuti e acerbi della vita, oltre che delle più accese speranze: nessuna opera del teatro musicale ce lo fa intendere come La Bohème. I dolori elementari (paura di essere abbandonati, paura di morire, paura del freddo e della solitudine) hanno la disperazione accanita che tutti noi abbiamo vissuto nell’adolescenza, quando ogni cosa era “la totalità” e le mezze misure non erano ammesse. “La totalità” è così la festa coloratissima al Quartiere Latino che alza i suoi conforti artificiali sotto la morsa dell’inverno; o ancora la sensazione di intirizzimento all’alba, alla Barrière d’Enfer, dove la strumentazione pucciniana raggiunge un effetto prodigioso con mezzi semplicissimi; o la vanità da ragazzina di Musetta, cui piace di farsi ammirare per via. Quanta tenerezza, quanta giovanile impellenza ha trovato Puccini per le proprie creature. In quella stretta inconfessabile che fa sentire la vita in pericolo c’è tutto il carattere di Puccini: il suo impaccio recato nel cuore, la sua capacità di amare solo in fretta, in un moto angosciato e vergognoso; la sua nostalgia per la bellezza, la sua confidenza e il suo terrore per la morte.

Sulla partitura della Bohème Puccini disegnò un teschio colle tibie incrociate e scrisse “Mimì”, un altro dei propri autoritratti al femminile. Finì l’opera alla mezzanotte del 10 dicembre 1895, a Torre del Lago. Più tardi, raccontò a un amico: “Dovetti alzarmi in mezzo alla sala, solo nel silenzio della notte, mi misi a piangere come un bambino. Mi faceva l’effetto di aver visto morire una mia creatura”.