Francesco Maria Colombo

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La musica che ti chiama per nome - Francesco Maria Colombo
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La musica che ti chiama per nome

Dopo il meraviglioso concerto di Haitink a Lucerna con la Alpensinfonie, mi sono chiesto dove stia veramente il valore di un interprete. Ho scritto di musica per tanti anni (sul Corriere per 12 anni), e questa domanda me la ponevo tutti i giorni. Come direttore d’orchestra ho semplicemente guardato altrove: ci si concentra sulla pratica musicale, sulle arcate, sulle dinamiche, sui problemi concreti di un’esecuzione. Tutti i discorsi sul ruolo dell’interprete e le correnti di stile e tante altre belle parole… quando si deve dirigere una Sinfonia di Schumann si pensa davvero ad altro: è un lavoro, come dire, più proletario, più matter of fact…

Per questo mi sorprendo ora nel pensare a chi, degli interpreti che ho sentito (e ho cominciato prestissimo: ho ascoltato dal vivo Arrau, Serkin, Horowitz, Milstein, Jochum, Karajan, Leinsdorf…), abbia davvero svelato il proprio valore, e perché.

Alla fine la risposta è questa. Ci sono interpreti che ti dicono, della musica, di uno stile, di un’emozione, di tutta la vita, qualcosa che prima non sapevi che esistesse. Magari moltiplicano le tue domande anziché dare risposte: ma dopo aver ascoltato la loro musica non sei più quello che eri: cambia il tuo rapporto con la musica e con l’esistenza. E non è necessario che questi interpreti siano i più “bravi” o i più “importanti”: hanno un loro indefinibile dono specifico, magari un po’ nascosto per mende tecniche o per difetto di carisma fuori dalla musica, o per altri casuali motivi. Ma quando penso alla musica che mi ha cambiato la vita mi vengono in mente (fra quelli che ho ascoltato dal vivo, altrimenti dovrei cominciare con Caruso, Callas, Fricsay, Friedman):

Shura Cherkassky e l’infinita poesia fatta balenare, come una traccia di luce nell’aria che si muove, nel Cigno di Saint-Saëns trascritto da Godowsky.

Sandor Végh e il finale della Sesta Sinfonia di Schubert a Salisburgo, la delicatezza, la fantasia smisurata, il brillìo adolescenziale suscitato da un vecchio quasi novantenne.

Peter Maag e La clemenza di Tito: il più nobile e profondo e commovente fraseggio mozartiano che abbia mai udito.

Yuri Temirkanov, una Quinta di Tchaikovsky disperata e lampeggiante, l’inizio del Valzer che non sapevi quando nascesse dal nulla e già risuonava. Un bis con il Salut d’amour di Elgar trascolorante, mutevolissimo, eleganza come forma di malinconia e viceversa.

E tante cose ascoltate da Herbert von Karajan.

Sono loro i più grandi interpreti? Forse no, ma con la musica è come con i libri, i film, le canzoni. La valutazione del valore spetta ai critici (ehm ehm). L’adesione affettiva, la rivelazione che è in qualsiasi gesto d’amore, nasce dove meno te lo immagini, in un film imperfetto, in una canzone corriva che ti chiama per nome e continua, dopo anni e anni, a risuonare dentro di te. E’ così un mistero la vita (e la musica le assomiglia così tanto: in ogni istante è già scomparsa: è già metamorfosi: è già distanza temporale: è già correre verso la fine).

(Nella foto, il sommo Josef Hofmann in concerto al Metropolitan Opera House, 1937)