Francesco Maria Colombo

Direct e-mail
fmcolombo@fastwebnet.it

Music contacts
Filippo Anselmi
Piper Anselmi Artists Management
777 Westchester Avenue
White Plains, NY 10604
Telephone: 212-531-1514
www.piperanselmi.com

Photo contacts
Elbie Lebrecht
Lebrecht Music & Arts
3 Bolton Road
London
NW8 0RJ
020 7625 5341
USA toll-free 1-866-833-1793
pictures@lebrecht.co.uk

Homepage photo credits
Photo: © Elio Di Pace
Blog: © Miriam De Nicolò
Music: © Oskar Cecere

Wordpress customized by Venti caratteruzzi

Archives

La nostalgia, e ciò che l’acquieta - Francesco Maria Colombo
346
post-template-default,single,single-post,postid-346,single-format-standard,qode-core-1.0.1,ajax_fade,page_not_loaded,,capri-ver-1.5, vertical_menu_with_scroll,smooth_scroll,side_menu_slide_with_content,width_270,grid_1300,blog_installed,wpb-js-composer js-comp-ver-4.12,vc_responsive

La nostalgia, e ciò che l’acquieta

In una giornata come questa, già rosseggiante di feuilles mortes, temperata dalla nebbiolina, quando la sera è lesta a venire d’autunno, ho capito cosa mi piaceva nella vita. Avrò avuto sette, otto anni, eravamo andati in Piemonte, nel Monferrato, a trovare degli amici che poi, non so perché, non avrei mai più rivisto. Ricordo i boschi, i tartufi, i funghi, la terra bagnata, i profumi caduchi, lenti, la luce morente della giornata. Ricordo però soprattutto lei: che non ha un nome.

La villa era immersa nel verde, camini accesi, alari di ottone; boiseries, vecchie biblioteche, tappeti (anni Settanta, com’era diverso il mondo. Se avete visto La donna della domenica di Comencini e avete presente la villa sopra Torino, ecco, il clima era simile). Fucili, la mattina si era usciti a caccia con i cani. Molti fiori dappertutto, ma anche qualcosa di un po’ triste, di lasciato andare, l’impressione di una famiglia che ha lasciato l’agone e vive fra cose belle, in silenzio, un po’ isolata. Champagne, ma io non ne bevevo ancora.

Lei è stato l’imprinting, io ero come la papera di Konrad Lorenz. Aveva i capelli scuri, lisci, lunghi: lunghe le ciglia, scuri gli occhi. Sorrideva con una grazia, una leggerezza, una distanza, come se il mondo fuori non potesse toccare la propria vita interiore; sorrideva lentamente, e fu la prima volta che imparai che esiste, insieme con l’eros veloce, repentino, guizzante, un eros tenace, pervasivo, atmosferico, il cui tempo è scandito lentamente. Portava, questo lo ricordo benissimo, una gonna scozzese scura, e calze velate sulle gambe lunghe e stupende, che accavallava con una levità e una semplicità mai più ripetute da nessuna. Non ricordo se fosse moglie o figlia del nostro ospite, non so nulla: si era appena laureata perché tutti si complimentavano con lei, avrà avuto 25 anni.

Probabilmente non mi vide nemmeno, ma il modo in cui si muoveva, le dita che tenevano il calice, la cesellatura del viso e soprattutto quel sorriso morbido, lento, silenzioso, hanno fissato in me per sempre un modello femminile al quale non ho mai più rinunciato. Sapevo, una volta per tutte, che prima ancora di essere la soddisfazione del piacere la donna è un’inquietudine irresistibile e dolorosa, è la nostalgia e ciò che l’acquieta (“Die Sehnsucht du / Und was sie stillt”, dice la stupenda poesia di Rückert messa in musica da Schubert); e sapevo, avevo finalmente imparato, che niente, niente, niente nella vita determina la nostra felicità come avvicinarci, ingannevolmente, alla mèta di quella nostalgia. Avevo imparato che la bellezza fa male, e che senza la fascinazione di quelle apparenze (il sorriso, le gambe lunghe e velate, il modo di accavallarle, la voce dolce e quieta) la vita è cosa spenta e vacua.

Non avevo nessuno cui dirlo, e ricordo perfettamente la commozione vergognosa di quando, in macchina, tornando verso Milano la sera, mi chiesero perché fossi così triste e silenzioso. Il mio desiderio non aveva preso forma, confusamente avrei voluto baciarla, premerle il seno, risalire con la mano su per quelle gambe: di più non sapevo, non conoscevo. Ero un bambino. Ma sapevo benissimo, e questa verità non mi avrebbe mai più abbandonato, che in quella voglia vaga e smarrita c’era la verità emotiva della mia esistenza, e che per sempre si sarebbe accompagnata al dolore.

(La foto è di Nina Leen, apparsa su Life nel 1949)