Francesco Maria Colombo

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Milly - Francesco Maria Colombo
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Milly

Chi l’ha conosciuta (io, purtroppo, non ho fatto in tempo) parla di una signora minuta, elegante, priva di affettazione, capace di conversare in tutte le lingue con accento perfetto, ricca di storia e di fascino ma sprigionante la rara virtù della leggerezza. Il suo nome d’arte era Milly. Questa sera la si è ricordata a Milano (dove una via porta il suo nome), al Piccolo, uno dei luoghi leggendari della cultura italiana. Filippo Crivelli riproponeva lo straordinario recital di canzoni milanesi andato in scena la prima volta cinquant’anni fa, Milanin Milanon: Milly, insieme con Tino Carraro, Enzo Jannacci, altri nomi leggendari, ne era stata la prima interprete. La sala era strapiena; fra saluti agli amici e chiacchiere si è ricordato un tempo remoto (io non l’ho vissuto, ma so cos’era la Milano degli anni Settanta, quando la nebbia era nebbia e le insegne colorate aggettavano su Piazza Duomo: e Milly recitò ancora Milanin Milanon nel 1976), e quando sono tornato a casa, a piedi, camminando per Milano deserta, pensavo a certe mie cose: eccole.

Milly è stata un’artista in un genere lieve come una piuma, effimero, volatile, perituro: la canzone. Aveva cominciato come soubrette negli anni Venti, con una vocina pettegola come si usava allora, e cantando sciocchezzuole deliziose e polverose come “Mutandine di chiffon / Sentinelle dell’amor”… Era diventata famosa presto: era bella, agile e con un portamento perfetto. Cesare Pavese le scrisse, a 19 anni, una lettera delirante (“Conosco le sue linee esteriori, qualche istante della sua vita e soprattutto quel po’ di anima che da un viso si può rivelare a un osservatore attento. Ma è poco, signorina, al confronto dell’immensità di ciò che vorrei conoscere in lei”). Mario Soldati e Vittorio De Sica le fecero una corte assidua. Il giovane principe Umberto passava a prenderla con la sua Isotta Fraschini. Era la regina dei flirt, vestiva come la figurina di un racconto di Irene Brin, e stabilì presto una dimensione internazionale, fra Parigi e Hollywood, anche perché non sopportava il provincialismo estetico dell’Italia fascista: cantava, recitava, flirtava, conversava con Cary Grant e Cole Porter. Lo chic in persona.

Poi, nella Milano del dopoguerra, incontrò il proprio Pigmalione che la trasformò completamente, rendendola ciò che era, facendole riconoscere se stessa. Giorgio Strehler la plasmò sul cabaret di Brecht e Weill, le fece sbocciare quella sua voce oscura, nata tra i fumi azzurri e nebbiosi delle notti, le insegnò il distacco interpretativo che dona al canto la propria dimensione epica, la fece debuttare sul più avventuroso palcoscenico, quello del Piccolo. Continuò a cantare canzoni, ma dalle mutandine di chiffon era passata al cuore della cultura mitteleuropea: fu prodigiosamente, tutti i talenti in una sola persona, Edith Piaf e Marlene, Katherine Hepburn e Juliette Gréco. Sul suo volto affilato e intelligente si sono rastremati gli stili, le inflessioni più raffinate di ogni cultura, i suoni e gli accenti che, come nessun’altra cosa, fanno capire cosa siano un tempo e un luogo e una civiltà, e dunque la Berlino anni Venti, la Parigi esistenzialista, la vecchia Milano delle sghembe filastrocche in dialetto cantate nei locali sui Navigli, recuperate e riproposte con un gusto eletto, con amore, assieme a Tino Carraro e al giovane Enzo Jannacci. Dopo averla vista al Teatro Gerolamo di Milano nel 1963, Giorgio Bocca scrisse un articolo bellissimo in cui toccava il punto essenziale: “Noi diciamo solo che a volte, a forza di sentire parlare viene in testa una gran confusione, non si sa bene cosa sia questa civiltà nel cui nome tutti sentenziano, approfittano, ciurmano e non pagano il dazio. Poi una sera si va ad ascoltare la cantante Milly che ignora tutto dei sacri valori, ci si va a passare due ore di svago, per ascoltare qualche bel motivo di oggi e di ieri, del nostro e degli altri Paesi ‘occidentali’, e magari proprio così si capisce per quale somma di civiltà siano filtrati i gesti, il gusto, la misura di questa squisita cantante”.

Qualche mese fa, sempre Crivelli l’aveva ricordata in una serata celebrativa, con la proiezione di filmati prestati dalla Rai, impeccabile in una chanson di Aznavour, sublimemente distaccata nella Guerra di Piero di Fabrizio de André, affocata in un brano di Piazzolla, coquette in Je te veux di Satie; e ancora attrice di cifra personalissima nel Conformista di Bertolucci o in uno sceneggiato tratto da Ritratto di signora di Henry James. In ogni cosa, nel più corrivo impegno televisivo o in un concerto alla Piccola Scala, Milly portava una sapienza di stile, una proprietà, una cognizione delle sfumature minime, una propria sensibilissima venatura dolorosa, che la rendevano indimenticabile. Morì nel 1980, a 75 anni. Roberto de Monticelli, il più grande critico teatrale che l’Italia abbia mai avuto, le dedicò un meraviglioso ricordo sul Corriere della Sera, in cui parlava della “natura notturna della voce di Milly, quel buio che aveva nella gola e che è rimasto così giovane e splendente attraverso gli anni… Era il fiume su cui lei scendeva il versante del tempo, foglia staccatasi da un albero degli anni Trenta e conservatasi miracolosamente verde, con dentro tutta la sua linfa di allora”.

Ed ecco quel che pensavo stasera, mentre camminavo per Milano: io sono cresciuto e mi sono formato in un mondo che non esiste più. Quando facevo le scuole medie leggevo le critiche di de Monticelli sul Corriere e imparavo ad amare un linguaggio, una musicalità della prosa, una ricchezza di riferimenti, una facilità nello scivolare tra i nessi del sapere, un gusto per la bellezza, che sono completamente scomparsi. Così come è scomparsa l’eleganza che Milly recava nel semplice gesto di cantare una canzone popolare. Così come è scomparso l’umorismo colto, raffinato, colmo di sottintesi. Così come è scomparsa l’arte di conversare. Così come è scomparsa la cultura: non dico l’arte, non dico la creatività, non dico il sapere, non dico la qualità della vita, ma la cultura, quello che in inglese si chiama civilisation e che riunisce impalpabilmente infinite cose, i codici di tutte le epoche, le evoluzioni dello stile, la scioltezza nel dominio di lessici e registri, la facilità dei collegamenti, la formazione del gusto, il riconoscimento e l’elezione della sensibilità umanistica.

Lascio il clip di una meravigliosa chanson che Milly interpretava, con una classe irraggiungibile, per quella che fu la televisione italiana leggera, di cui non restano che macerie.