Francesco Maria Colombo

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Le rose del volto - Francesco Maria Colombo
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Le rose del volto

In calce ai tanti commenti. Ho visto anch’io La traviata, nel video Arte HD, che di solito realizza produzioni eccellenti ma che in questo caso offre una microfonazione spaventosa, un suono fesso, una fotografia mediocrissima in cui tutti i colori sono annegati in una melassa giallo-rosacea e in cui nella prima scena, quando Violetta si specchia in una psiche, viene messo a fuoco… il sostegno laterale della psiche. Ah già, ma vedo che la produzione è Rai… E te pareva…

Di scrivere recensioni ho smesso tanti anni fa, quando ancora i critici erano pagati, e bene, e sapevano, almen qualcuno, ciò di cui parlavano. Perciò, nulla. Solo impressioncine da uomo della strada.

– Flora (non so chi sia) è di un sexy straordinario. Come accavalla le gambe, come si muove, come sorride, come sta seria! Sicché durante le due feste ero distratto.

– La cara Mara Zampieri (con lei feci Ah perfido! e La Mort de Cléopatre) è una specie di coro della tragedia greca, ed è pronta, visivamente, per la Contessa Geschwitz. Chapeau!

– La Damrau è un’artista meravigliosa e probabilmente il migliore soprano oggi in attività. Nel finale è immensamente commovente. Ma…

– Ma… il problema è che il senso della parola scenica, e dunque l’intenzione espressiva, la pronuncia e il fraseggio vocale, non li decidono più né i direttori d’orchestra né i cantanti: li decidono i registi. Se il regista decide che su “Questo popoloso deserto che appellano Parigi” la parola “Parigi” corrisponda a un gesto birignao, per forza di cose la cantante si trova a cantare “Parigi” in modo birignao. E questo vale per tutte le parole di tutte le frasi di tutti gli atti. Se “E’ strano!” vien detto ad Annina anziché a se stessa, Violetta lo dirà inevitabilmente in modo diverso. E così via: e questo è un problema senza ritorno, a meno che direttore e regista studino insieme la partitura, ciò che avviene soltanto nelle fiabe.

– La regìa ha molte ingenuità e alcune colpe: la principale, per me, è quella di aver creato, al posto del demi-monde evocato da Verdi con una precisione lessicale sublimemente cinica, un sous-monde che non esiste se non nel Regietheater. Detto altrimenti: dove Verdi adopera il linguaggio in modo pre-Zola, come mezzo di denotazione (parlo, ovviamente, delle due feste), questo regista lo tramuta in connotazione perdendo ogni traccia di realismo. Il demi-monde nettissimamente denotato da Verdi diventa un sous-monde di macchiette spesso deficienti, che non ha rapporto con nessuna realtà, nessuna società, nessun niente: infatti in nessuna realtà e nessuna società ci si veste così, ci si acconcia così, ci si muove così, ci si saluta così, ci si atteggia così. “Così” è solo un affare interno al Regietheater e alla sua autoreferenzialità coatta (e famola strana, sta regia).

– Detto questo, dove invece Verdi si stacca dalla dimensione del realismo per entrare nella sfera psicologica e mitica (che come tale non dipende da alcuna necessità storico-ambientale), a mio parere la regia funziona benissimo. La cucina dove Alfredo fa la pasta non mi dà alcun fastidio, traduce perfettamente la situazione nella quale i due amanti hanno messo le pantofole (la cosa agghiacciante della Traviata è che senza l’intervento di Giorgio Germont i due amanti si sarebbero odiati e allontanati per inevitabile inedia). Così pure trovo molto bello lo staccarsi di Violetta da tutto e da tutti nel finale, la sua dimensione di solitudine. Che poi sia una Traviata brutta da vedere è indiscutibile, ma questo è un altro discorso e mi interessa meno.

– Chi ha fischiato Gatti (non sto a dire se mi sia piaciuto o no, del resto io sono un musicista modesto, e lo dico con ogni semplicità e tranquillità, e lui è un direttore importantissimo) non si ricorda cos’erano certe Traviate insieme sguaiate e lacrimanti che abbiamo ascoltato alla Scala (dove si ebbe il coraggio di far cantare il ruolo da una Andrea Rost, ma tutto si dimentica…).

– Oggi la schizofrenia propria al mondo dell’opera lirica (da un lato le funzioni impaludate degli Ernani alla romana, dall’altro il terrore di non essere aggiornati che è di scena a Milano) mi fa credere che questo particolare linguaggio, il melodramma, ad onta del proprio valore non abbia davanti un gran futuro. Mi sbaglierò, ma io stesso sto perdendo interesse all’attualità dell’opera lirica, a quel che ne accade. In fondo mi sono molto divertito dirigendo le opere italiane in teatri medi degli Stati Uniti, dove andare all’opera è una festa non dissimile dal ballo delle debuttanti e dove ancora una certa ingenuità permette di lavorare senza troppi ricatti.