Francesco Maria Colombo

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Liberace c'est moi - Francesco Maria Colombo
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Liberace c’est moi

Ricordo bene il giorno in cui morì Liberace a Palm Springs, il 4 febbraio 1987, e le terribili giornate dopo la sua morte, in cui un uomo che (a dispetto del proprio incarnare lo show) era vissuto praticando la disciplina della discrezione in modo stoico, venne fatto a pezzi dai media. La causa ufficiale della morte, arresto cardiaco conseguente ad anemia, venne rigettata. Il suo corpo già imbalsamato finì sotto i ferri alla morgue, vennero esaminati i tessuti, venne annunciato all’America che il più grande showman del proprio tempo era un’altra vittima dell’Aids, come lo era stato Rock Hudson poco più di un anno prima. Oggi sembra incredibile che un uomo il quale entrava in scena tempestato di gemme e di perle e con mantelli di ermellino, a bordo di una Rolls-Royce incrostata di cristalli Swarowski, potesse fare impazzire milioni di donne americane e proporsi come icona eterosessuale: eppure questo accadde e si perpetuò per almeno due decenni. Ho letto diverse biografie di Liberace, e tante lettere di donne che trovavano in lui il simbolo di una virilità tenera, affettuosa, divertente, esuberante… well, gay, nel senso letterale della parola. Poche vicende ci danno il senso di una società, dei suoi sogni e delle sue illusioni, come quella del pianista che passava nella stessa sera da Rachmaninoff al Muppets Show: poche altre storie svelano così il lato nascosto dell’America.

Ho sempre avuto un debole per Liberace: non tanto per la sua estetica d’un kitsch irraggiungibile, un incrocio tra Franz Liszt e Judy Garland, ma per qualcosa che mi ha sempre colpito, la sua onestà intellettuale. Non lanciava proclami, non si proponeva quale guru, non scriveva libri filosofici, non avrebbe mai detto che Beethoven aveva problemi con il ritmo. Era l’epitome dell’entertainer, e di quest’arte piccola, corriva, che nasce e muore nello spazio di una serata al Radio City Music Hall, era un servitore tenace, serissimo, disciplinatissimo, professionalissimo. Mi sono chiesto tante volte perché un ragazzo con doti pianistiche spiccate come le sue, che era stato incoraggiato da Paderewski e aveva debuttato a 20 anni con la Chicago Symphony Orchestra (!), finisse per suonare i medleys delle melodie in voga, alla serata finale degli Academy Awards… Penso che, almeno in parte, ciò avesse a che fare con un forte senso di umilità. Ci vuole coraggio, per uno che debutta con la CSO, nel riconoscere che il proprio dono più vero, e dunque la propria missione, è quella di dare un sorriso e il breve incanto della musica leggera al pubblico a corto di sogni.

Insieme con il drive ritmico, Liberace aveva un tocco pianistico meraviglioso, smaltato, scintillante, classico ed elegante anche nella canzoncina più stupida. Soprattutto sapeva stabilire un contatto irresistibile con il pubblico, dal vivo nelle sale da concerto ma anche in televisione (fu tra i primissimi a capire cosa rappresentava in termini di mass culture): era pieno di verve, di battute, di galanterie, di gaiezza in un senso non parodistico. Si guadagnò con merito fin l’ultimo centesimo dei molti milioni che gli giunsero.

Aspettavo dunque l’uscita di questo Behind the Candelabra di Soderbergh, presentato a Cannes: l’ho visto stasera in bluray (in inglese, non so se sia ancora uscito in Italia, un’altra occasione per rovinarsi un film con l’atroce doppiaggio che si usa da noi), non mi importa se sia un film riuscito, io mi sono commosso. Primo, perché Michael Douglas che fa un pianista drag queen è la quadratura del cerchio, l’impossibile per definizione, e lui ci riesce: le sfumature del suo acting sono infinite, sottilissime, perfette, non so come dire:… musicali. Per me, il suo capolavoro di attore. Secondo, perché il film (al cui centro c’è il rapporto fra Liberace e il suo protégé storico, Scott Thorson: Matt Demon, un altro mostro sacro), invece di sciogliere gli enigmi li addensa sempre più. Sembra una storia d’amore e di odio gay con tutti i suoi clichés, ma di scena in scena va sempre più in profondità, ci fa domandare cosa sia vero e cosa illusione, quanto sia possibile comunicare all’interno dell’amore, con quale equilibrio e fino a che punto si possano far convivere arte e vita, quale sia il mistero di quest’uomo dall’eterno sorriso, figlio devoto e sottomesso di una madre possessiva, padre mancato di tanti ragazzi, sessuomane e cattolico dalla fede fortissima (era un polacco, dopotutto), prototipo dell’omosessuale e idolatrato dalle massaie, idealista e affarista, ossessionato dalla bellezza e ridotto, durante la fase finale della malattia, a uno scheletro calvo e grigiastro.

Qualche anno fa ero a Las Vegas, e andai a visitare il Liberace Museum (sono stato fortunato, ero in compagnia di un’amica americana che poteva capire tutto del personaggio, la sua complessità, non solo l’involucro esteriore): era una casa a forma di pianoforte a coda, voleva essere glamorous ma faceva un po’ pena perché circondata da negozi di scarpe sportive, fast food, drugstores. Dentro c’erano i suoi vestiti incredibili, le sue automobili, i ricordi della sua carriera, il grande ritratto della terribile madre in poltrona… La stessa amica con la quale andai a visitarlo mi scrisse nel 2011, dicendomi che l’avevano chiuso, non ce la facevano più con i costi. Mi prese una tristezza grandissima (tutto un modo di intendere lo show business finiva con la memoria di Liberace), e sono contento se penso di aver fatto, per una sera nella mia vita, la mia parte per evocarlo. Palm Beach, Florida, 1999. Il mio carissimo e compianto amico Anton Guadagno (il musicista più simpatico che abbia mai conosciuto) dirigeva la Fedora di Giordano (era il suo teatro, e dei mesi che trascorsi con lui serbo ricordi struggenti, una volta racconterò qualcosa): facciamo una scommessa, lui mi sfida a preparare a memoria in un giorno il ruolo di Boleslao Lazinski, il “pianista polacco, nipote e successore di Chopin”, che sulla scena del secondo atto suona un brano al pianoforte. Io gli dico “ci sto” (era un’epoca in cui suonavo ancora bene), a una sola condizione: che possa suonare in parrucca a riccioli biondi come omaggio a Liberace (dopo tutto era polacco, la filologia era salva). Anton, spiritosissimo, fu entusiasta dell’idea, e quella è stata la prima e l’unica volta in vita mia che io sia apparso truccato su un palcoscenico. Souvenir d’autrefois, qualcuno scattò una foto dello storico evento… Eccola.

boleslao