Francesco Maria Colombo

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Taxi Driver - Francesco Maria Colombo
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Taxi Driver

Alors, stasera, abbracciato alla donna che amo (così si stabilisce subito il pattern romantico), ho riguardato Taxi Driver. Anzi, l’ho guardato per la prima volta, perché in bluray e surround, in inglese, su uno schermo di 4 metri, è semplicemente un’altra cosa. Quei colori, i verdi acidi, i rossi che tendono al magenta, il ciano ipersaturo, io non li avevo mai visti: ed è grazie ad essi che Scorsese intona questo immenso, doloroso canto d’amore a New York. Che è la New York che ho conosciuto io, la stessa dei primi viaggi con mio padre: gli idranti sgangherati, i tombini che gettano fumo come geyser, i taxi che rimbalzano sull’asfalto cotto e caldo con un rumore di ferraglia, gli odori terribili, i chioschi, i deli dove a qualsiasi ora della notte puoi scegliere fra cento diversi carbonated drinks (per me era l’esotico puro, l’ultima frontiera, la Cina di Marco Polo, io respiravo quegli odori terribili con una felicità mai più raggiunta. E tutte le volte che torno a NYC cerco invano la cresta sottile del mio passato, l’acme che poi la vita sfalda). 1976: chi era quel me stesso di 11 anni in un mondo che oggi sembra lontanissimo, leggendario, svanito con i suoi colori e le sue musiche e la sua vitalità e la sua violenta bellezza? (A tutte queste cose penso riguardando Taxi Driver).

La follia di De Niro, che diventa l’epica solitaria di un giustiziere privato, è storia (del cinema e oltre) che tutti conoscono. La perfezione, il ritmo, l’intensità non sono forse mai stati più raggiunti da nessuno, nemmeno da Scorsese stesso. Ma quello per cui io mi ritrovo a piangere come un bambino (come il bambino che ero allora) sono le lunghe scene notturne, quando New York alza l’iconostasi gemmata delle insegne colorate, del neon, delle scritte gigantesche, dei labirinti fatui della notte. Allora lo schermo diventa, da concretezza assoluta e meticolosissima, il quadro astratto, la scia numinosa di una felicità perduta. Io non piango mai per nulla, ma quando, l’ultima volta, De Niro fa scattare il tassametro e parte, e dietro di lui c’è il volto meraviglioso di Cybill Shepherd (la donna che non ha potuto far sua, il femminino che muove tutto, l’illusione di quel sorriso di gatta e dei capelli biondi, tutto quello che addita, in una lontananza irraggiungibile, le plaghe estatiche…), e la camera non li inquadra mai insieme perché quell’insieme è possibile solo in un sogno, in un’altra vita, in un’un altra storia (other voices, other rooms… vero?), e la sublime colonna sonora di Bernard Herrmann, l’ultima sua, fa scivolare ancora una volta il solo di sassofono più bello che mai questo strumento abbia avuto in sorte… well, allora io sono perduto in una cosa più grande di me che allo stesso tempo definisce come nessun’altra la mia individualità. E piango questa vita già vissuta, questo miscuglio di affetti, di innocenze, di cognizioni del dolore: so che quello sono io, e quella musica e quelle immagini e quel volto meraviglioso me lo indicano con una struggente nostalgia.