Francesco Maria Colombo

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Il paradiso dell'amore - Francesco Maria Colombo
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Il paradiso dell’amore

Da quando Haneke si è messo a cucinare astutamente minestrine come Amour, il mio regista austro-tedesco di riferimento è Ulrich Seidl, il più duro e puro, l’unico a formalizzare in modo classicissimo e castigato l’estetica del ributtante. Così iersera ho visto (e consiglio la versione tedesca, dove l’accento austriaco gioca un ruolo importante) Paradies: Liebe, uscito l’anno scorso. E mi è piaciuto moltissimo.

C’è una categoria di donne che già è, a meno di risorse particolari (estetiche, morali, pecuniarie, affettive), in crisi di suo: le cinquantenni sole. Peggio ancora: le cinquantenni brutte e sole con figlie plantigrade, obese e deficienti in lotta con la madre. Peggio ancora: cinquantenni brutte e sole e con figlie deficienti in paesini tragico-depresso-piovosi dell’Austria (la meno moderna delle nazioni europee: le volte in cui sono stato a Salisburgo fuori stagione mi sarei potuto buttare dalla fortezza di Hohensalzburg o annegare nel Salzach). Ma la fenomenologia dell’orrore condivide con la fenomenologia della cretinaggine la risorsa di moltiplicarsi all’infinito. E questo è ciò che accade nel film.

Nel film va in scena qualcosa di cui si parla pochissimo ma che è un fenomeno molto diffuso: le cinquantenni disperate che si fanno la vacanza-safari al sole (in Kenya in questo caso)  tutto compreso, dove il tutto sta nel sollazzo sessuale, negli uomini del posto da passare in rassegna. A me è capitato di vedere arrivare, quando ho diretto due opere a Tenerife, vagonate di tedesche sovrappeso in cerca di facile ristoro. Ed era Spagna, non Cuba o Capo Verde! (Grazie a Dio non ne ho mai conosciuta di persona nessuna, ma conosco donne che, a tutt’altro livello di cultura e mezzi finanziari, il turismo sessuale di lusso lo praticano regolarmente).

La povera Teresa, una donna devastata dalla cellulite e irrimediabilmente provinciale nell’eloquio, arriva dall’Austria, si piazza in un albergo del Kenya dove altre derelitte come lei fanno comunella, impara a dire djambo e hakuna matata, e va a caccia di toy boys. Al primo colpo non ce la fa, in camera da letto (uno squallido assommoir in una bidonville) non se la sente; poi si ambienta e non capisce più niente. Il disastro è che non vuole sesso e basta, vuole sentimenti, emozioni, magia, vuole essere amata: ed è vittima di mascalzoni che la illudono per spillarle soldi. Alla fine si adatterà a non cercare altro che una botta e via, ma l’ultimo ragazzo nero prima di partire si rifiuterà (“non ce la faccio”) di inoltrarsi con la faccia fra le sue gambe elefantiache.

Non c’è nulla da ridere, è un film di una durezza e di un dolore infiniti, politissimo, geometrico e simmetrico nella fotografia, spoglio, brusco, con un tono da reportage senza emozioni. Le emozioni traboccano per converso: a spillarle è lo squallore stesso di Teresa e delle compagne, dei ragazzi neri e del loro sistematico mentire (un tema interessante: l’integrazione vista dall’altra parte), della figlia che non risponde al cellulare nemmeno il giorno del compleanno, della terribile, spaventosa angoscia che può provare qualcuno che sia ributtante e che abbia bisogno, come tutti, di essere amato, accolto e desiderato. “Ma che cosa è questo amore”? Lo canta la vecchia Berta nel Barbiere di Siviglia (una smania, un pizzicore, etc. etc.) e c’è dentro una cruda, acre verità: tutti noi ci sosteniamo, finché morte non ci colga, creandoci un alibi fideistico (tutti abbiamo, a nostro modo, una fede) che ci faccia sperare, quia absurdum, che qualcuno sia lì ad amarci, ad accoglierci e a desiderarci. Il viaggio nello squallore filmato da Seidl è, più di tutto, un viaggio dentro il bisogno primario di ogni creatura. Io mi sono sempre domandato come possano sopravvivere e non uccidersi le persone brutte, quelli brutti davvero, quelli che non hanno fascino, avvenenza, carisma, quelli di fronte al cui corpo si sentano dire “non ce la faccio”. Me lo domandavo fin da bambino. Vedevo delle persone brutte e, col razzismo dell’innocenza, mi chiedevo: “Ma perché vivono? Perché non si uccidono?”.

In un altro bel film dell’anno scorso, De rouille et d’os di Audiard, la protagonista viene amata, accolta e desiderata nonostante che un terribile incidente le abbia fatto perdere le gambe. Può accadere davvero? Non lo so. Al cinema queste cose possono accadere perché la donna con le gambe amputate ha uno dei volti più belli al mondo, quello di Marion Cotillard. Ma nella vita? E per quelle che non hanno la faccia di Marion Cotillard? Quello che so è che la storia terribile di Terese, che va in Africa in cerca di sesso e sentimento e incontra solo la propria disperazione, è una storia vera.