Francesco Maria Colombo

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My Willa - Francesco Maria Colombo
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My Willa

L’ultima sera della sua vita, il 24 agosto 1984, Truman Capote scrisse una pagina per Joanna Carson, l’ospite nella cui casa, a Bel Air, si trovava. Il protagonista è lui, giovanissimo, che studia in una biblioteca di New York e nota un’anziana signora dallo sguardo chiaro, elegante, un po’ mascolina, coi capelli corti. Impellicciata quando esce nel freddo dell’inverno. Una sera c’è una tempesta di neve, Truman si fa coraggio e si offre di accompagnarla verso casa. Prendono un caffè, parlano di letteratura, la signora chiede al ragazzo quali siano i suoi autori preferiti. Truman inanella i vari Flaubert e Turgenev… “Ma gli americani?” E lì il ragazzo si accende… Adora Willa Cather… “I really like Willa Cather. Have you read My Mortal Enemy?” Al che la signora risponde: “Actually, I wrote it”.

Tutte le volte che prendo in mano un libro di Willa Cather (1873-1947) mi viene in mente quell’episodio che riunisce i due scrittori americani che più amo: non so se siano i più grandi e non mi interessa. So che né Faulkner, né Steinbeck, né Hemingway né la mia adorata Katherine Anne Porter toccano “la” corda muta all’interno di me stesso e la fanno risuonare, come vi riescono Capote e la Cather, della quale il primo ha preso la scrittura trasparente, precisa, antisentimentale eppure ricchissima emotivamente: una scrittura che è solo americana, ha qualcosa di innocente, di fresco, di selvaggio, di ampio come la pianura del Kansas quando è battuta da un vento gelido (prima o poi rifarò il coast to coast in macchina: ma ho paura che la delusione faccia svaporare un ricordo mitico). Matisse diceva che la sua percezione della luce è cambiata completamente quando è stato in America: la scrittura della Cather o di Capote ha quella luce, vivida, smagliante, smaltata.

Ho riletto due romanzi della Cather che amo immensamente: uno in italiano, Una signora perduta, l’altro, che in italiano non mi risulta tradotto, in inglese, My Antonia. Dunque? Dunque ci sono tante cose da dire. Tutti e due i romanzi sono raccontati in prima persona da un io maschile: di cui la Cather si serve per affermare un punto d’osservazione della donna che non è quello della donna eterosessuale, né quello del maschio. E’ di una donna che è innamorata delle donne. Una donna eterosessuale non potrebbe creare personaggi femminili così caricati di desiderio, di ammirazione, di un’aura vitale e gloriosa. E un uomo non potrebbe sentire con quei personaggi la stessa complicità, la stessa condivisione che stilla da ogni pagina di Willa Cather. Come scrisse Capote: “A lesbian? Well, yes”.

I personaggi femminili sono diversissimi fra loro: la protagonista di A Lost Lady è una donna matura, una di quelle creature che effondono il dono della grazia, la cui espressione primaria è il sorriso, il cui calore umano e il cui fascino sono irresistibili. Ed è anche una lost lady: una traditrice, un’amante clandestina. Mi ricorda certe gatte eleganti, dal pelo di seta, che ogni tanto scappano e dopo un po’ tornano sporche, graffiate, malconce, perché si sono infrattate a fare selvaggiamente all’amore. Una donna non è tale senza la torbida seduzione di quella esperienza. Come scrive Willa Cather: “Ah, le donne belle, di una bellezza che lascia intendere più ancora di quanto non dica… il loro splendore è dunque alimentato sempre da qualcosa di sordido e di oscuro? È questo il loro segreto?”… (Aggiungo questo: A Lost Lady è stata incarnata al cinema da una grande attrice, Barbara Stanwyck, ma in un film molto modesto del 1934. E’ un delitto che nessuno abbia pensato a trasporre il romanzo in un film con Jessica Lange come protagonista. La Marian di Willa Cather ha per me, insostituibilmente, il suo volto, la stessa luce raggiante e sensuale dei suoi occhi scuri).

L’Antonia di My Antonia è invece una bambina quando la storia comincia: una profuga boema: verso la fine dell’Ottocento la famiglia si è trasferita nel Nebraska (allora, il West: anche A Lost Lady è ambientato lì, nella terra da cui la stessa Cather proveniva), si è installata alla bell’e meglio e si è messa a lavorare nei campi. Seguiremo il suo percorso per decenni: Antonia sarà una ragazzina intelligente e affettuosa, con la stessa vitalità e lo stesso calore di Marian; sarà poi una donna, anche lei una donna perduta; si trasferirà in città e incarnerà la sua ebbrezza vitale nel ballo, e poi… non voglio raccontare la storia, che si intreccia con quella dell’io narrante maschile e di un’altra serie di personaggi indimenticabili. Quello che mi importa è che Antonia è un’altra donna, come Marian, di cui è impossibile non innamorarsi. Tutti noi abbiamo conosciuto figure che hanno la facoltà di inaridire e spengere intorno a sé il flusso della vita, e figure che hanno la facoltà di fecondare quel flusso semplicemente con il loro proprio essere, di renderlo più intenso, più caloroso, più colmo di emozione. Così è Antonia, e in qualsiasi momento della sua semplice e ordinaria esistenza noi veniamo raggiunti, grazie alla prosa della Cather, dalla vita stessa, che ci investe e splende in una sovvrabbondanza di sé (tutto: gioie, dolori, la pura felicità di esserci).

E questo mi sembra il punto fondamentale: Willa Cather racconta storie che non sono storie, sono vite come quelle di chiunque, con accadimenti normalissimi, quotidiani, fatti di nulla (in certi momenti mi ricorda Čechov, per questo aspetto). Ma i due personaggi femminili raccolgono in sé e irradiano a dismisura il dono, la bellezza, l’irripetibilità, lo sgomento incantato, la dolorosa immensità della vita stessa. Non c’è bisogno di fatti straordinari. Quel dono si raccoglie attraverso le esperienze più comuni, il ciclo dell’esistenza e della morte, il lavoro, gli affetti, lo sguardo sulla natura; si concentra attraverso la scrittura nei due personaggi femminili, e di lì inonda l’esperienza del lettore, la sua intelligenza, il suo cuore. Il processo che la scrittura della Cather svolge è dunque essenzialmente una mitopoiesi. Il processo mitopoietico, di cui i due personaggi femminili sono gli attori, i principi attivi, trasforma il particolare nell’universale, l’ordinarietà in mito, la semplice vita di un’immigrata boema in Nebraska nell’apparizione luminosa della vita stessa.

E’ un’operazione alchemica nella quale, a mio parere, i reagenti sono due: uno è il tempo; l’altro è la visione, soprattutto la visione della natura. Il tempo è fondamentale. Le due storie sono narrate ex post, a giochi fatti. La vita di Marian e di Antonia è già oltre la concretezza del presente: il tempo l’ha spinta più in là, in una lontananza mitica che attingiamo attraverso lo struggimento, in una romitezza nostalgica e arcana. Quando leggo i romanzi della Cather io avverto in me, nello stesso momento, un’espansione di vita assolutamente felice, e un sentimento acerbo, dolorosissimo, della finitudine.

La visione della natura si ricollega al tempo: è una natura emotivamente caricata di innocenza e di nostalgia. E’ la natura come la vede un bambino: è anche la natura di un’umanità bambina, verginale (gli immigrati di prima generazione nel West americano). E’ la natura che, nel momento in cui Willa Cather scrive, non c’è già più: sarà poi una natura domata dall’intervento dell’uomo. Qui la Cather gioca, con una sensibilità e una discrezione meravigliose, la carta autobiografica. E qui, soprattutto, la misura classica e la precisione della scrittura colgono il trascendimento delle apparenze, attraverso la visione, e l’instaurazione ancora una volta del mito: il mito di un paradiso perduto, la frontiera, ma anche l’infanzia prima della linea d’ombra, l’infanzia come stato simbolico. Io non conosco alcuno scrittore americano che abbia raggiunto la perfezione e il cristallo di alcune descrizioni della natura in My Antonia: “When spring came, after that hard winter, one could not get enough of the nimble air. Every morning I wakened with a fresh consciousness that winter was over. There were none of the signs of spring for which I used to watch in Virginia, no budding woods or blooming gardens. There was only–spring itself; the throb of it, the light restlessness, the vital essence of it everywhere: in the sky, in the swift clouds, in the pale sunshine, and in the warm, high wind–rising suddenly, sinking suddenly, impulsive and playful like a big puppy that pawed you and then lay down to be petted. If I had been tossed down blindfold on that red prairie, I should have known that it was spring”. “The thunder was loud and metallic, like the rattle of sheet iron, and the lightning broke in great zigzags across the heavens, making everything stand out and come close to us for a moment. Half the sky was chequered with black thunderheads, but all the west was luminous and clear: in the lightning flashes it looked like deep blue water, with the sheen of moonlight on it; and the mottled part of the sky was like marble pavement, like the quay of some splendid seacoast city, doomed to destruction”. “I took a long walk north of the town, out into the pastures where the land was so rough that it had never been ploughed up, and the long red grass of early times still grew shaggy over the draws and hillocks. Out there I felt at home again. Overhead the sky was that indescribable blue of autumn; bright and shadowless, hard as enamel. To the south I could see the dun-shaded river bluffs that used to look so big to me, and all about stretched drying cornfields, of the pale-gold colour, I remembered so well. Russian thistles were blowing across the uplands and piling against the wire fences like barricades. Along the cattle-paths the plumes of goldenrod were already fading into sun-warmed velvet, grey with gold threads in it”.

Così era Willa Cather. Quando Capote la conobbe rimase sbalordito nel sapere che quella donna, che come nessuno aveva raccontato la vita dura e concreta dei pionieri, era un’elegante signora con un bellissimo appartamento a Manhattan, competente appassionata di concerti, amica di Yehudi Menuhin, discreta ed elusiva. (Il versante più “cultivated” della Cather si ritrova in un incantevole, raffinatissimo libretto che è anche tradotto in italiano, La nipote di Flaubert). Per trentanove anni visse con la stessa compagna, Edith Lewis. Volle che lettere, ricordi, immagini fossero distrutti dopo la sua morte. Sulla sua tomba è inscritta una frase tratta da My Antonia: “…that is happiness; to be dissolved into something complete and great”.