Francesco Maria Colombo

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Manon 70 - Francesco Maria Colombo
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Manon 70

Manon 70 è un filmetto ma comincia nel migliore dei modi e dei mondi possibili: dietro le quinte di un défilé, con le modelle che si cambiano, sfilano biancheria, si aggiustano calze, allacciano stivali, scoprono piccoli bagliori, insieme eccitate ed annoiate. Gli abiti sono di Ungaro e c’è tutta l’epoca di quando le sfilate si facevano presso la maison, e con le mannequin (che bella parola: tanto bella quanto orrendamente rozzo è il suono di “top model”) disciplinate. Solo per i titoli di testa, andata visto.

La storia è la stessa dell’abate Prévost, dell’opera di Puccini e Massenet, di quel pastiche forse superiore all’originale che è La femme et le pantin con tutte le derivazioni in cinema, da Sternberg a Buñuel, ma trasposta nel 1968: la storia della donna che incoscientemente, seguendo solo il proprio capriccio, ama e tradisce, semina illusione e infelicità. La parola chiave è l’incoscienza. Tutti noi uomini sappiamo che cos’è, tutti ne siamo stati più o meno vittime, e chi non lo è stato si è perso qualcosa.

E dunque: niente di nuovo in Manon 70, più un po’ di goffaggini narrative e di verbosità d’après Godard. Ma io ho visto tanti e tanti film, e ormai mi piacciono solo quelli in cui trovo qualcosa, l’air du temps, una sfumatura, la carezza del passato che s’insinua nella mia memoria e la fa zampillare. Manon 70 è così, con gli “squali” Citroën esattamente come quello dove andavo a scuola da bimbetto, con la forma degli occhiali, dei tavolini da bar, dei revers di una giacca, dei chioschi, delle biciclette, con le insegne, la grafica delle riviste, il design degli aeroporti, che non fanno rivivere l’infanzia ma al contrario la raggiungono, le sorridono e la fanno brillare sul fondale marino dove giace. Un dettaglio per tutti: a un certo punto si vede un manifesto che annuncia un concerto: pianista Nikita Magaloff. Quante cose mi dice quel nome, com’era la vita musicale, com’era il pubblico, com’erano le serate di musica. Magaloff l’ho sentito suonare poche volte (indimenticabilmente alla Isole Borromee per il Festival di Stresa: altro luogo dove fino a vent’anni fa resisteva un pubblico assolutamente anni Sessanta), ma mi ricordo benissimo la sua conversazione deliziosa, cesellata, un balletto di figurine di porcellana. Era un uomo nato suddito dello Czar, e recava la grazia di un’epoca scomparsa.

In più: Manon è, questa volta, Catherine Deneuve allo zenith della propria bellezza: diversissima dalla Séverine di Buñuel e dalla Julie di Truffaut (altre due traditrici, ma due traditrici “scientificamente” consapevoli, una per perversione, l’altra perché perduta). Qui la Deneuve è meravigliosa per sventatezza, per leggerezza, per l’assoluta mancanza di responsabilità, per non sapere cosa voglia dire la parola “morale”, la parola “giusto” o “ingiusto”. Ogni volta, nella mia vita, sono rimasto incantato dalla varietà, dalla capillare ramificazione, dall’ingegnosità della menzogna, dal modo di essere artiste della menzogna che hanno le donne. Non c’è niente di così adorabile come la noncuranza con la quale ci tradiscono, ci prendono per il naso, ci tirano matti, ci accusano (un istante dopo essere uscite dal letto di un altro) di guardare qualcun’altra; niente di così adorabile come il saper cancellare ogni gesto nello spazio di un soffio o di un sorriso; e noi siamo lì, a ingannarci ancora una volta perché senza la dolcezza di quell’inganno la vita non è nulla. Tutte le donne, grazie a Dio, sono Manon. E la vita mi ha insegnato a credere solo alle donne che so capaci di ogni bugia: sono le più amabili e le più generose. Di quelle fedeli (oh noia!) non c’è da fidarsi.