Francesco Maria Colombo

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Mehr Licht - Francesco Maria Colombo
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Mehr Licht

Ora che tutti scrivono, pubblicano, vanno per locations a far shootings e così via, una specie di lasciapassare per la gloria letteraria, o per il riuscire interessanti, è il delirio dichiarato, l’allucinazione, lo stato di alienazione, nelle infinite varianti che vanno dallo sklero psichedelico allo stupro cerebrale, dalla necrofilia farmaco-indotta alla febbre a quaranta misurata col termometro rettale. Tipica foto psiko-goth-emo: modella bianco cadavere in lingerie in fabbrica abbandonata e fatiscente (mai che ci si chieda il nesso causale?), o fra i crocifissi del cimitero, e magari una bambola mezza rotta sulla ghiaietta del viale. Cosa fa la parrucchiera di Sant’Angelo Lodigiano per darsi il quid d’identità? Si dichiara lunatika e compone i propri Inni alla notte, che a differenza di quelli di Novalis ogni tanto pericolano sul congiuntivo. Sono tutti maudits, tutti figli o padri dell’isteria onirica; più sono fuori più sono poeti(ci); più si dannano di abissi e più sono pronti a tornare, quando l’ora scatta, in ufficio, allo sportello, a prendersi un cono gelato gusto Nutellone.

[L’assenzio non ha mai reso poeta nessuno: Verlaine usava con infinita pazienza il bulino del ritmo, incideva la musica del verso sino a liberarne il metro irrinunciabile; attingeva a tutte le risorse della prosodia, lottava corpo a corpo con l’allitterazione, secerneva la sillaba necessaria. Solo così nasceva qualcosa davanti a cui piangere tuttora, sei parole come

et toujours, maternelle endormeuse des râles

con la quieta risacca di “endor” e il pennacchio sonoro ed amaro di “râles”.]

Via, via… Amo la luce e la grazia, il ridente rigore della forma, lo splendore aurorale, il suono squillante dell’aria sottile, amo quarzo e cristallo. Amo la superficie zuccherina dei marmi di Canova, la malinconia ampia delle Elegie duinesi, i cieli del Tiepolo, le marine di Whistler dove già vedi l’astratto galleggiare dei colori che sarà di Rothko. Amo la scarpina lanciata in aria dalla ragazza di Fragonard, alla Wallace Collection; le porcellane di Kaendler; il Rosenkavalier e la scena della presentazione della rosa; la prosa di Chateaubriand. Amo la perfezione, la compiutezza, ciò che si scrolla di dosso le ordinarie maledizioni, i brividi e le furie del demonismo da quattro soldi (e aggiungo questo: Arbasino racconta che quando, all’epoca della Scapigliatura, si facevano gran pose di demonismo e maledettismo, era stato coniato l’immortale dittico milanese “Andemm andemm al sabba / In via Fratelli Gabba”… Se ne ricordassero una volta per tutte, gl’indemoniati gementi e dilaniati…).

Infine, due piccole cose per chi voglia provare il brivido (sì, lo uso anch’io stavolta) dell’aesthetically uncorrect. La prima: rinunciare per sempre alla parola abisso. La seconda: prendere un aereo per Londra, entrare alla National Gallery e imprimersi l’azzurro del Wilton Diptych. A quel punto, il più è fatto.