Palermo is… oh, just so romantic
Visto stasera To Rome with Love, l’ultimo film di Woody Allen. Non è il suo migliore, né fra i suoi 30 migliori. Però almeno tre cose le ho trovate deliziose.
1 – Il ritorno di Allen come attore. Fa sempre lo stesso ruolo, ma la sottigliezza delle nuances è di un virtuosismo irreale, soprattutto nella scena in cui si accorge che il padre del fidanzato romano di sua figlia ha un’impresa di pompe funebri. E poi nessuno veste i beige, gli écru, gli ocra come lui.
2 – I colori saturi che sono una dolce memoria di certi technicolor anni Cinquanta sull’eterno soggetto degli Americans in Rome, tipo Summertime di David Lean (in Venice, that time). E’ una Roma, questa di Allen, che non esiste non solo perché nel film i romani sono macchiette e luoghi comuni, ma perché Roma ha altri colori, un’altra qualità dell’aria, un’altra sublime nuvolaglia bluastra, e Allen non è Gadda per descriverla. Questa è una Roma coi colori di come ci si immaginava in America Roma quando Allen aveva 20 anni: di qui la nostalgia.
3 – La meccanica della seduzione nel rapporto tra Monica (Ellen Page) e Jack (Jesse Eisenberg). Lei è la classica ragazza (americana, ma è un genere abbastanza diffuso anche da noi) non più che carina ma capace di farti credere che è chissà cosa, perché va dallo shrink cinque volte a settimana, perché ha avuto storie a raffica e ne parla, perché dice di essere perfetta per il ruolo della Signorina Giulia, perché cita un verso di Pound, uno di Yeats, uno di non ricordo più chi, perché dice che la Sagrada Familia è per lei un’ossessione e fare le cose illegali è meraviglioso, perché insomma snocciola quel repertorio di banalità che sono gran personalità e gran cultura in similoro (va bene citare il verso più noto di Yeats, ma ne citi almeno un altro; sia trasgressiva nel fare una volta ogni anno una cosa normale; eviti di rivelarci che Palermo is just so… so… romantic) e sotto le quali non c’è un bel niente. Niente metodo, niente disciplina, niente valori, niente profondità, niente incatenarsi alla sedia e studiare, nemmeno un girovita stretto (con in più il clamoroso paraculismo femminile del dire “non è colpa mia se per me hai lasciato la tua ragazza”). Lui è un ragazzo americano che vive con la fidanzata a Trastevere e studia architettura. La cosa bella del film è che lui sa perfettamente che lei non vale niente e sta solo cercando di darsi un tono (con la sicumera delle persone che ci credono, non con l’ironia delle persone che praticano la salutare abitudine del dubbio); ma vuole innamorarsi, vuole far finta che tutto ciò sia bellissimo, vuole inventare in lei il personaggio seduttivo e irresistibile che lei è solo per gli allocchi (e lui non è un allocco, non più di tutti noi uomini). E’ lo stesso tema di Midnight in Paris (e forse di tutto il cinema di Woody Allen): far finta di credere alle lusinghiere illusioni che ci fanno barare con noi stessi, per sfuggire “alla futilità della vita”.