Quel luminoso oggetto del desiderio
Sono qui nel delizioso giardino del mio albergo preferito di Madrid, le note discrete di un pianoforte si combinano allo sgocciolio della fontana. Ho messo il primo abito di lino chiaro dell’anno, per festeggiare la primavera qui avanzata. Il mio amore, con le sue scarpette anni Quaranta laccate di bianco, legge di fianco a me che scrivo. Ed ecco quel che scrivo.
Un’ora davanti alle due maliose e maieutiche (di troppi pensieri e suggestioni) Majas di Goya, ritrovate al Prado per l’ennesima volta e, ad ogni visita, sempre più enigmatiche. Intanto, la disposizione con la Vestita a sinistra e la Nuda a destra riproduce l’ordine di Amor sacro e amor profano di Tiziano alla Galleria Borghese: ma in mezzo non v’è alcun tumulo, alcun amorino o angioletto: né un paesaggio sullo sfondo ad additare riferimenti, punti d’appoggio iconologici, criteri interpretativi.
In mezzo non v’è nulla, intorno non v’è nulla. Solo questa vertigine illusoria del ‘doppio’ caro alla tradizione romantica, e lo zampillare degli enigmi. Il primo: stiamo guardando due donne, o è la stessa donna? Il secondo, molto più importante: è una sola donna, o sono due donne a guardarci, a guardare noi? E mentre ci guardano cosa ci vogliono dire?
Che la modella fosse la medesima, Pepita Tudó o, in una tradizione più fantasiosa, la duchessa d’Alba, importa meno che il riconoscere la stessa struttura del corpo, i fianchi larghi, il meraviglioso seno saldo e trionfale, aperto in due direzioni come gli occhi di Sartre (il libro più bello mai scritto sul seno femminile si deve a Ramón Gómez de la Serna, in una prospettiva non sai se più surreale o più metafisica); e la stessa morfologia del volto, con le sopracciglia ad arco, le pupille brune e il profilo greco del naso. Sicché la medesima donna ci dice qualcosa, vestita e nuda, e non in due momenti diversi ma nello stesso momento, che è dentro la nostra isocronia percettiva. Non tanto perché sia nuda o vestita; quanto perché sia nuda e vestita nello stesso istante percettivo, è la domanda.
Cui naturalmente nessuno può rispondere. Io ho sempre immaginato lo sdoppiamento delle Majas come un processo feticistico, quello per cui il desiderio passa attraverso qualcosa che lo blocca e lo suscita al contempo: e che nella dilazione dell’ottenimento detta la regola del gioco, la supremazia di chi è desiderato su chi desidera. Tale è la funzione, ad esempio, della pelliccia nella celebre immagine di Venere di Tiziano (da cui infatti Sacher-Masoch fa discendere, come da un archetipo assoluto, l’intero processo del feticismo masochistico). Ma tale è anche la funzione dello specchio nel nudo di donna più celebre e venerato dell’intera storia della pittura ispanica (o universale), la Venere di Velázquez ora a Londra, e che fece parte della collezione di Manuel Godoy proprio come le Majas goyesche. Questa, dunque, la funzione non solo dell’abito ma del belletto molto più acceso, della veste serica e degli scarpini, del bolerino che ne fa un ‘tipo’ spagnolo, nella Maja vestida. Il cui sguardo è più diretto, il cui invito è più esplicito, e la cui intimazione di un potere (ciò che assoggetta chi desidera a ciò che egli desidera) molto più energica. Un passaggio, dunque, dalla promessa (Maja vestida) al compimento (Maja desnuda).
Ma questo può avvenire con qualsiasi pittore, non con Goya, che insieme con Velázquez è per me il più grande fra tutti. Riviste ora al Prado, le due Majas hanno moltiplicato tutto il loro mistero e rovesciato il mio castello di carte. O meglio: che il processo feticistico dall’abito alla nudità sia l’immediata chiave di lettura del dittico, nessuno credo lo possa smentire. Ma il punto è che la Maja desnuda non costituisce alcun compimento, ma è invece un’ulteriore dilazione, più morbosa e più estrema, del desiderio. Ciò che solo al genio di Goya è possibile. E questo non l’ho mai considerato guardando le immagini riprodotte, o in visite al Prado più brevi, ma solo questa volta, sostando un’ora e accorgendomi che in ogni istante di quell’ora la Maja desnuda sussurra il suo invito e lo ritira, chiama il desiderio e lo rimanda nel tempo, dice: “sono qui, sono la bellezza della donna, la felicità, tutto ciò che l’uomo desidera”, e dice nello stesso tempo: “non credere di avermi, riconsidera le tue illusioni”.
Lo dice mantenendo la stessa postura della Maja vestida, con le braccia dietro la nuca che, è vero, scoprono la magnificenza del seno, ma negano il gesto stesso dell’abbraccio. Lo dice con il chiudersi dei ginocchi, che nella Maja vestida erano invece lievemente divaricati, come segno di offerta. Lo dice con lo sguardo, che è più beffardo ma anche più severo (riaffermazione del potere della donna e del principio di assoggettamento masochistico di chi desidera), contrastante col sorrisetto malizioso della bocca: l’opposto di quanto avviene nella Maja vestida la cui bocca è inerte laddove gli occhi ridono di un piacere quasi animale. E’ come se in quello sguardo la Nuda proferisse le parole dell’invito e le smentisse nel momento stesso. “Pensavi di ottenermi, ora che sono nuda? Povero sciocco!”
Ma soprattutto, dove la Maja vestida posa su un letto, con la concretezza dell’abito e il peso del corpo, con l’appoggio della figura nella pennellata più svelta, incisiva, accesa, affermativa, colorata, la Maja desnuda non posa ma si sospende in una luce innaturale, verdognola, subacquea e argentea. Il corpo emerge fra le trine impalpabili come qualcosa di lieve e inarrivabile (il ginocchio sinistro che non scarica il peso del corpo!) e in quel lucore si sfa, allontana le proprie promesse e ne diventa simbolo, forma primordiale sottratta alla concretezza, ‘amor sacro’ vero e proprio, immagine di una bellezza che fa male perché imprendibile tanto più è vicina e ‘scoperta’. Nella sua luminosità quasi intollerabile, l’oggetto del desiderio, come nel film di Luis Buñuel, non è mai stato tanto oscuro.
(La foto, celeberrima, è di Elliott Erwitt, 1995)