Francesco Maria Colombo

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Siete meravigliosi - Francesco Maria Colombo
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Siete meravigliosi

Iersera, Mediolanum Forum di Assago. Un caro amico mi invita al concerto della Filarmonica della Scala, Brahms e Mussorgskij, e benché al Forum non ci sia un bar dove prendere un cocktail pre-theatre in santa pace, eccomi lì. Migliaia di persone sugli spalti, grande successo, ottima amplificazione, insomma tutto bene, ma…

Ma forse è giusto così, sono io che sono nato e cresciuto in un mondo che non esiste più. E non ho 87 anni, ma 47. In pochissimo tempo sono cambiati tutti i codici della comunicazione, e qualche volta (iersera) mi sento come il protagonista di The Artist, che recitava benissimo nei film muti, e quando arriva il sonoro non sa più parlare.

Prima del concerto, prolusione del pianista Lortie e del direttore, maestro Battistoni. (Naturalmente non sto parlando del loro talento, né dell’esecuzione: non è questo il tema). Tutti e due vestiti con una specie di grembiule nero come lo portavamo noi alle scuole elementari. Tutti e due a proprio agio col microfono. Chi mi ha dato la misura dell’abisso che mi divide dagli usi e costumi di oggi è il giovane direttore d’orchestra: dopo il “Sono molto felice di vedervi qui” esclama “Dicono che questa musica non tira, e invece…” (applausi) e chiude rivolto al pubblico con “Siete meravigliosi”. Urla di approvazione.

Ripeto: non sto parlando di musica ma di comunicazione. A me tutto questo è estraneo, la retorica della democrazia musicale, il pareggiare tutti i generi, l’imbonire la massa usando quel tipo di linguaggio. Io non riesco a immaginare Carlo Maria Giulini che parla della musica che tira o non tira, non riesco a immaginare Celibidache che ci dà dentro col microfono e il “Siete meravigliosi”. La musica è un fatto sobrio e profondo, ha bisogno, per diffondere la propria bellezza, di silenzio intorno a sé, di concentrazione, di una spiccia ma precisa formalità. Io vengo da un diverso pianeta. Avevo 14 anni quando sono andato a Salisburgo la prima volta, ricordo Karl Böhm entrare nella fossa orchestrale senza un sorriso, senza una moina, sedersi sulla propria seggiola, aprire la partitura e dare l’attacco (questione di pochi centimetri) della più augusta e luminosa Ariadne auf Naxos che abbia mai sentito. Per me entrare nella musica è anche questo: il rito di una civiltà (l’umanesimo occidentale) che celebra il proprio prestigio atemporale, e questo non può e forse non deve essere per tutti.

Eppure è giusto portare il Secondo Concerto di Brahms a migliaia di persone che altrimenti non l’avrebbero mai ascoltato (ma c’è una differenza tra essere sul prato di Tanglewood dove ascoltai una grande Settima di Mahler diretta da Claudio Abbado, ed essere ad Assago circondato dai “meravigliosi”). E dunque qual è la verità? Non lo so, sono confuso, mi sembra che l’esperienza dell’arte non passi attraverso un’alfabetizzazione generica. Ortega y Gasset ne ha parlato in modo definitivo: si può imparare solo ciò che si possiede già, e l’esperienza dell’arte richiede, perché la si possegga, tempo, agi, abitudini, frequentazioni, l’acquisizione di un lessico e di una strutturazione del pensiero che, sia giusto o no, è privilegio di pochi. I “meravigliosi” possono anche vivere senza Brahms, perché l’avere udito per una sera il Secondo Concerto di Brahms è un alibi culturale, un frammento di bellezza galleggiante fra tatuaggi e reality show televisivi: non mette radici, non entra nella vita per trasformala. It’s fun, that’s all.

La serata di ieri mi ha insegnato che a vincere sono codici di comunicazione lontanissimi dal mio background culturale; che forse devo essere più tollerante io, meno snob; o forse devo fare come il Barone Utz nello stupendo romanzo di Chatwin: chiudermi in un appartamento circondato di statuine di Meissen, accendere le candele e veder scintillare quella materia vitrea trasformata dal fuoco, mettere un disco di Miliza Korjus e usare la memoria come fiore dell’oblio.

(La foto di Andreas Gursky è stata scattata a Pyongyang nel 2007)