Sogni d’inverno
La Prima di Tchaikovsky. Sogni d’inverno, si chiama: che dovrebbe essere il titolo di tutta la sua opera (l’inverno non solo come malinconia e intirizzimento del cuore; pure l’inverno delle slitte, delle campanelle, delle ghirlande di fiocchi di neve, l’inverno munifico di luci struggenti). L’ho diretta una volta, in uno dei miei primi concerti, poi non l’ho mai più aperta né ascoltata in teatro, fino a stasera: quando l’ho sentita alla Scala (Filarmonica) diretta da Gergiev.
Tchaikovsky potrebbe non aver scritto altro: c’è tutto, la sua titubante tenerezza, le sue cave anse di sofferenza, c’è lo smalto della frivolezza come nascondimento del dolore, c’è qualcosa che nella storia della musica hanno, pari a lui, solo altri due genii, Handel e Ravel: il lusso.
Poi c’è quel momento, verso la fine dello Scherzo, in cui il tema di Valzer (di Valse, anzi) del Trio torna schiuso dai colpi del timpano: torna per qualche istante, alza leggero e funebre le sue infinite nostalgie, batte le ali come una tragica falena notturna, poi si inabissa. Solo per quel momento, saranno 10-15 secondi di musica, Tchaikovsky non sarà forse il più grande compositore di tutti tempi, ma è quello che amo senza possibilità di difesa.