Francesco Maria Colombo

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Venezia in technicolor - Francesco Maria Colombo
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Venezia in technicolor

Tutti hanno visto Vacanze romane con l’incantevole Audrey Hepburn; pochi hanno visto Tempo d’estate, di due anni dopo (1955) con l’altra Hepburn, Katharine: ma l’assunto non è dissimile, e rivisto iersera Summertime, il cui regista è David Lean, serba un suo piccolo incanto. Katharine è Jane, la classica segretaria dell’Ohio che si avvicina gloriosamente alla cinquantina e visita Venezia alla ricerca di romance, amore, emozione, musica, notti stellate con fuochi d’artificio, serenate in gondola, bicchieri di vetro soffiato da riportare oltreoceano perché figurino in bella vista (di fianco alla foto del campanile di San Marco) sulla credenza. Non ci potrebbe essere luogo comune più atroce, ed è il punto di partenza per tutta una serie di altri luoghi comuni: il bambino intelligente che cerca di spillare denaro alla turista, il tuffo imprevisto nel Canal Grande, l’orchestrina del caffè concerto, la pensione frequentata da anglofoni spietatamente ritratti, le meravigliose tinte saturate del technicolor anni Cinquanta (chiunque ami Venezia sa che è una città dalle infinite sfumature di un grigio luminoso: questa è invece sgargiante, squillante, esultante di colori), e soprattutto Renato, il Latin Lover, che nel film è Rossano Brazzi dallo sguardo languido, dalle posture sempre un po’ impacciate e dai capelli argentati sulle tempie (naturalmente bisogna vedere il film in lingua originale, altrimenti si perde l’irresistibile accento italico dell’inglese di Brazzi).

E così la segretaria dell’Ohio, con tutta la pruderie americana connessa all’ultima speranza di non rimanere zitella per sempre, trova quel che cerca, fra sospiri e timori e tremori e il giusto tasso alcoolico e la luna specchiata nei canali e le calli deserte ricetto agli amanti. Ma… ma il Latin Lover è sposato, e quando Jane lo scopre il castello di sogni va in frantumi. Bene: qui il film si riscatta, perché invece di offrire la solita mammola moralistica di cinquant’anni fa, con il seduttore italiano che in qualche modo si redime (ma lasciare la moglie non può. Che farà? Andrà in bianco per “rispettarla”?), compie una brusca virata sul tema del desiderio. Renato lo dice esplicitamente: quello che può offrire è la passione fisica, è una felice avventura fatta di gondola nights e amplessi voraci, dopo di che lei tornerà nell’Ohio e lui tornerà dalla moglie. E Jane che fa? Jane fra mille angosce e rimorsi accetta, e si gode le sue giornate di felicità prima di correre alla stazione, in tempo per non pentirsene.

Mi ricordavo di aver visto Summertime tanti anni fa, ma non ricordavo questa esplicitazione della tematica sessuale, così inconsueta negli anni Cinquanta (dove il desiderio è un tema che gremisce la cinematografia, ma collegandosi quasi sempre alla dimensione morbosa e patologica, qui totalmente assente). Tutto cambia di segno quando Jane capisce ciò che può avere, non solo ciò che non può avere, grazie a Renato: e scegliendo di regalarsi quell’effimera gioia esce dal ritrattino prevedibile e diventa una donna vera, con la complessità delle sue contraddizioni, con la sua vulnerabilità e il suo coraggio. Di più: proprio il fatto che Jane scelga di vivere le sue gondola nights le scioglie addosso una specie di poison dolce-amaro, che ne connota di malinconia la figura. Jane viene dalla solitudine e va verso la solitudine: e quel che c’è in mezzo sono le illusioni che scegliamo di perseguire sapendo che sono tali e che la fine incalza. Un filmetto d’evasione anni Cinquanta diviene così una delicata, triste riflessione sulla natura illusoria del sentimento, sull’amore fisico che prende il posto del sentimento quando il sentimento vuol prendere il posto dell’amore fisico: e David Lean (tutti coloro che abbiano visto il suo capolavoro, il meraviglioso Brief Encounter, lo sanno) è un maestro di queste ambagi, di queste sospensioni malinconiche dell’interiorità. Riesce persino a rendere espressiva Katharine Hepburn, un mezzo miracolo.

Infine: Venezia nei film ha mille volti diversi, da Visconti a Roeg, da Fellini a Reitz. Per me la Venezia più bella resta la Venezia Paramount di Ernst Lubitsch, e le scene veneziane con le quali inizia Trouble in Paradise sono fra le cose più mirabili mai girate con una macchina da presa.