Francesco Maria Colombo

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Do Do That Vodoo - Francesco Maria Colombo
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Do Do That Vodoo

La cosa più bella del nuovo film di Woody Allen (Magic in the Moonlight) sono i titoli di testa: sfondo nero, con gli stessi caratteri bianchi che caratterizzano i film di Allen da decenni, e con il delizioso Cole Porter di You Do Something to Me (con il meraviglioso verso “Do do that vodoo that you do so well”)… Quel che deludentemente segue (sto parlando di un regista genio, questo il parametro) è il tema di tutto il cinema di Woody: come possiamo vivere senza il conforto delle illusioni? e soprattutto: come possiamo vivere senza il conforto delle illusioni quando sappiamo che sono soltanto illusioni? Tema bellissimo e immediatamente ricondotto al metadiscorso del cinema come illusione che dipinge le illusioni: gioco di scatole cinesi raffinatissimo e, in qualche momento del film, vertiginoso. Ma tema svolto meno felicemente che in altre pellicole.

Protagonista è un illusionista che tenta di smascherare un’illusionista che vende le sue illusioni come realtà perché senza di esse la realtà sarebbe inane. Qual è la verità? Il sapere che le illusioni non esistono? O non è anche questa un’illusione di controllo? (e si può vivere senza una fede, quale che sia? compresa la fede nella negazione…). Il tutto fra Berlino, Londra e Costa Azzurra nei ruggenti Anni Venti, con costumi e pettinature stupendi, una fotografia che non mi piace (colori sfacciati e talora amalgamati da un flou incomprensibile), e, nella prima mezz’ora, conversazioni brillantissime. E un’attrice piuttosto bellina chiamata Emma Stone.

Tre cose però mi lasciano sbalordito. Una è la trascuratezza di certi dettagli: nella prima scena si parla di un “direttore d’orchestra” che terrebbe tempi troppo lenti (o veloci, non ricordo) nell’accompagnare lo spettacolo dell’illusionista. Ma siamo in un teatro senza la buca d’orchestra, e l’orchestra dove sta? Sul soffitto? A suonare nientemeno che la Sagra della primavera? Mah. E poi l’ukulele suonato con le dita della mano sinistra che si muovono alla bell’e meglio per simulare gli accordi. Eh no, per stare in un film di Woody Allen bisogna saper suonare l’ukulele (o bisognava, scopro con raccapriccio).

La seconda è la lunghezza dei dialoghi e soprattutto dei monologhi (compresa una preghiera che non finisce più). Passim durante il film ci si augura di passare presto alla scena successiva.

La terza è che Colin Firth è un attore bravissimo ma ha la faccia di quando suonano le campane a morto. Fa un misantropo, e va bene, ma così è una depressione monopolare che dà noia.

Infine una nota a margine: una bella ragazza povera di Kalamazoo si trova al bivio se scegliere di sposarsi con un giovanotto carino e multimiliardario, un po’ fesso ma innamoratissimo; oppure convolare col misantropo malioso e condividere le sue depressioni (che però con lei dovrebbero mutarsi in permanente buon umore). E’ chiaro che la logica dello happy ending richiede la seconda soluzione; ma è solo l’ultima delle illusioni. Avesse avuto un po’ più di sale in zucca, la bella di Kalamazoo starebbe sullo yacht del marito ricco a Bora Bora, e scenderebbe ogni tanto per farsi l’amante fascinoso e misantropo, per intervalla insaniae.