Francesco Maria Colombo

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Mahler in Love - Francesco Maria Colombo
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Mahler in Love

Ricordo bene il primo concerto di Barenboim alla Scala, dieci anni fa. Era arrivato e aveva trovato una situazione incommentabile, un pendolo oscillante in continuazione fra la Cavalleria rusticana e il Mefistofele. Quella sua prima Nona di Beethoven (le prove ancor più del concerto) ristabiliva la norma esecutiva, la priorità della pratica stilistica classico-romantica, e inverava tutto ciò attraverso un dominio della concertazione sbalorditivo. Non che fosse tutto perfetto: Barenboim non è mai stato un perfezionista, ha sempre preferito la generosità al dettaglio. Ma tutto prendeva il giusto passo, la giusta morfologia di fraseggio, la giusta continuità con una tradizione antica e pluricomposita (Furtwängler innanzitutto; poi Klemperer, Celibidache). A Milano abbiamo avuto tutto questo per dieci anni: nel bene e nel male (non sono mai riuscito ad arrivare al quarto atto, tutte le volte che gli ho sentito dirigere Aida: non è quello il suo linguaggio). Ce ne siamo accorti? Ho molti dubbi. Milano è una città indifferente: per i milanesi è la Scala a far grandi i direttori che vi passano, non viceversa. Ed è una città sospettosa: un musicista che diriga tutto, suoni tutto, suoni e diriga allo stesso tempo, scriva libri, fondi orchestre che riavvicinano israeliani e palestinesi, vuol dire che qualcosa che non va.

Ciò che sfugge a questa città sono i parametri: di Barenboim si può dire qualsiasi cosa, ma il parametro è la grandezza, sono i massimi sistemi, è ciò che resta nella storia. Per Milano ha voluto dire la costruzione di un suono sinfonico ampio, sontuoso, dotato del peso specifico necessario a Beethoven (del quale il nostro ha eseguito tutte le Sinfonie, tutti i Concerti pianistici, tutte le Sonate), a Wagner (del quale ha realizzato un Ring memorabile, dopo che il precedente tentativo scaligero era naufragato in un fritto misto di diversi registi, qualcosa in forma di concerto, e nessuna esecuzione di seguito delle giornate), a Schoenberg. E a Mahler, del quale iersera si è eseguita la Nona Sinfonia, nel concerto che, salvo errore, conclude l’avventura di Barenboim direttore sinfonico alla Scala. Esecuzione pazzesca. Fin dalle prime battute, spicce, asciugate di ogni retorica e quasi insofferenti, ci siamo trovati avviluppati da un suono denso, ampio, un immenso abbraccio sonoro capace anche di sfiorare, suggerire, accennare, indicare: dunque, di ogni delicatezza e persino di ogni tenerezza. La Nona di Mahler fa sempre pensare alla dimensione metafisica, è qualcosa che si spinge e sporge sulle altezze ultime: interpretata da Giulini o da Karajan suggerisce l’immagine di Messiaen, éclairs sur l’au-délà. Tutti (tranne il pubblico della Scala, che applaude dopo il terzo tempo credendo che sia finita) sanno che nel movimento conclusivo essa dipana una lunga spirale di bellezza, che sempre più si disfa nel silenzio: è una Sinfonia che fa paura. Iersera a me è arrivato, insieme con tutto questo, un significato del tutto nuovo, e cioè l’enorme carico di amore che l’ultimo sguardo di Mahler sulla vita possiede. Non la negazione, non la dissoluzione, ma la passione che si destina solo alle cose che finiscono, perché vogliamo averle con noi per sempre. Le parole inseguono la musica senza mai riuscire a tradurre nulla: posso dire del calore del suono, dell’eloquenza cantabile riconsegnata fino all’ultimo frammento di melodia, della continua trasformazione delle dinamiche in un flusso inesauribile, legatissimo, morbido e, appunto, amoroso. Ma sono parole. Chi non c’era non potrà mai sapere cosa fosse questa esecuzione sublime.

L’orchestra della Scala, direi se fossi un critico, ha suonato con un virtuosismo abbagliante, una compattezza, un amalgama imperfettibili. E non ho mai sentito i meravigliosi assoli della viola eseguiti in modo paragonabile a quel che ha fatto Danilo Rossi ieri.

Ciò che la Scala deve completamente trasformare è il proprio pubblico. E’ un pubblico, e mi spiace per la generalizzazione, vergognoso. Applausi, ho detto, fra un movimento e l’altro, quattro suonerie di telefonino lungo la serata, la mia vicina che ha letto e annotato un libro per tutta la Sinfonia (ma c’era bisogno di venire alla Scala?!). Commenti ad alta voce su tutto, la giacca di Barenboim, le luci che si riflettevano sul soffitto, la lunghezza della Nona. Binocoli sollevati per guardare le campane tubolari e poi sorridere. Un pubblico che non c’entra più nulla, per età media, modi, consuetudini, paludamenti, con quello che si vede oggi a Berlino, a Parigi, ad Amsterdam. Un quarto della sala già scattato in piedi venti secondi dopo la fine della Sinfonia, rincorsa e assalto dei cappotti con il direttore che non era ancora sceso dal podio.

Per chi sia a Milano, si replica domani e dopodomani. Poi, si vedrà.