Francesco Maria Colombo

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Celeste Mehta - Francesco Maria Colombo
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Celeste Mehta

E’ ai critici musicali che vanno fatti i test, gli indovinelli sulle Arie delle opere e simili. Io, quando lavoravo al Corriere, ne feci centinaia a tutti i miei colleghi, senza mai scoprirmi: e infatti di tutti sapevo perfettamente quale fosse il grado di dottrina e di competenza, con risultati spesso esilaranti se non tragici. Scriverei volentieri un libretto se non fossi obbligato a far nomi… si va da quello cui suonai una volta Verborgenheit di Wolf al pianoforte e mi disse “bello questo Poulenc”, a quella cui una volta chiesi di voltare le pagine della partitura della Passione secondo Matteo che stavamo ascoltando, senza dirle che avevo portato la Passione secondo Giovanni, e così via: con cose tipo “la quinta minore” accettate senza batter ciglio e le “quinte parallele” che in realtà erano quarte eccetera eccetera. D’altra parte sono certissimo che se chiedessi in questo istante al 100% dei critici italiani di cantare l’inizio non di una Sinfonia di Miaskovskij ma del secondo movimento della Terza di Brahms, il 99% non saprebbe a che Santo attaccarsi.

Dico questo perché non ho nostalgie per quel mestiere, che ho svolto per 15 anni e che ho lasciato 15 anni fa: ma spessissimo leggo cose che non hanno nessun rapporto con la materia di cui è fatta la musica, cioè il suono con le sue leggi; né con i canoni dello stile; né con la collocazione della musica nella cultura dell’Occidente. Come fa uno che confonde Wolf con Poulenc (oppure, stesso critico, il Concerto italiano di Bach con Scarlatti), come fa a dare un giudizio quale che sia? Per forza si leggono poi castronerie madornali…

Insomma, io non scrivo mai critiche musicali ma in questi giorni alla Scala me ne è venuto un po’ di rimorso, perché vorrei dire a tutti quelli che di musica si interessano, che amano Verdi, che non amano Verdi, che dirigono o suonano o cantano o ascoltano Verdi, di correre a sentire questa Aida diretta da Zubin Mehta. Che è uno spettacolo molto DDR e con cantanti non sempre adeguati (ma mi è piaciuta molto un’Aida debuttante, Kristin Lewis: molto intelligente, molto versata nella pronuncia italiana, molto musicale) ma che è diretta da uno dei tre massimi direttori verdiani viventi (gli altri due sono Nello Santi e James Levine) in modo esemplare: esemplare proprio nel senso di esempio. D’altra parte si arriva a dirigere così Aida solo dopo molti decenni di esperienza. Chi non possa venire a Milano segua lo spettacolo su Classica HD.

Non ho mai sentito Aida eseguita con un equilibrio così saggio, così sapiente ed elegante fra la dimensione di teatralità generosa e traboccante, che pur fa parte dell’opera, e la dimensione intimistica: le due si connettono nel medesimo fraseggio, nella medesima scelta di accento o di dinamica. C’è letteralmente tutto: lo splendore glorioso e la sofficità irreale (con quell’orchestrazione spesso fatta di traslucidi pedali acuti) dell’accompagnamento alle Arie; la spinta propulsiva ma anche la maestà e la solennità del passo; la rifinitura delicatissima e mai sfoggiata del particolare, e il senso della continuità drammatica. Ma tutto è così semplice, così vero, così armonioso, da poter finalmente per una volta volta nella vita ritrovarci ad ascoltare non l’Aida di Karajan, di Abbado, di Maazel, di Mehta, ma l’Aida di Verdi, che era un uomo la cui raffinata austerità era nemica dei fronzoli e dei compiacimenti. Ci sono direttori che in Verdi fanno sfoggio di autobiografismo (ce ne era uno, famoso, che cominciava a far singhiozzare il suono alla terza battuta della Traviata), ci sono direttori che vogliono far capire come Mahler e Schoenberg vengano da Verdi (e lì i danni sono irreparabili); ci sono poi, naturalmente, quintali di direttori di bacchetta (la definizione è di Gadda) fra i quali mi ci metto volentieri anch’io che preferisco non riascoltare l’unica Aida che ho mai diretto… e poi ci sono i veri Maestri, che non hanno bisogno di scomporsi e di elucubrare ma che alla musica danno un sostegno amorevole, competente, onesto, rispettoso: e che sanno come fare.

Zubin Mehta è così in questa produzione. Ha confidenza con l’idioma, ha il senso dell’equilibrio complessivo, sostiene i cantanti in modo meraviglioso, accende i grandi concertati a partire dalla leggerezza e dalla trasparenza con cui sa far risaltare la condotta delle parti: insomma, è un direttore favoloso. L’orchestra suona con una levità e una varietà di accenti impressionanti, il coro (che in alcune delle ultime edizioni di Aida ascoltate alla Scala non sapeva più che fare per stare insieme) funziona come un orologio ed è smagliante ovvero capace di gravità e mistero.

Ecco, come critico musicale ho fatto la mia piccola uscita e me ne ritorno nelle retrovie, lasciando a dir la loro a quelli che pigliano il Paulus di Mendelssohn per Handel (anche questo mi è capitato). Ma non perdetevi questa lezione di direzione d’orchestra e questa prova d’amore per un’opera sublime.