Francesco Maria Colombo

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Di cosa parliamo quando parliamo d'amore - Francesco Maria Colombo
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Di cosa parliamo quando parliamo d’amore

Un attore di Hollywood, che tanti anni fa ha interpretato una serie di filmacci di cassetta e al quale oggi chiedono l’autografo donne obese per le quali era stato l’idolo di gioventù, tenta di rimettersi in gioco su un palcoscenico di Broadway. La pièce scelta è una riduzione, da lui stesso firmata, di un testo iconico della cultura americana, What We Talk About When We Talk About Love di Raymond Carver. Ne è il regista e l’interprete. Mancano tre giorni ad andare in scena.

Questa è la situazione presentata da Birdman, il film di Alejandro González Iñárritu che ha vinto l’Oscar. L’attore in crisi e perseguitato dal proprio passato (“He’d lost his magic” come nell’attacco di The Humbling di Philip Roth) è un tema frequentatissimo, persino banale. E questa banalità (“ignoranza”, nel sottotitolo del film) è la categoria programmatica di una serie infinita di platitudes in cerca di un palcoscenico. La banalità del cinema hollywoodiano ad effetti speciali, da cui viene il protagonista. La banalità delle storie d’amore intrecciate fra i camerini. La banalità degli annunci di gravidanza, del bacio lesbico, del flirting più ovvio che ci si aspetti. La banalità dei rapporti fra ex moglie ed ex marito, compreso un tardivo ritorno di fiamma. La banalità del rapporto fra padre e figlia (quest’ultima banalmente in terapia di riabilitazione dalla droga). La banalità dell’attore di teatro che esacerba il proprio ruolo perché a Broadway ce la fa, e a Hollywood non potrebbe (il rovescio del protagonista). La banalità del critico che stronca le pièce prima di averle viste… Queste e mille altre banalità sono gli ingredienti del film.

Ma cosa c’è di interessante in queste banalità? Il fatto che, come i personaggi in cerca d’autore di Pirandello, esse cercano un riscatto attraverso la rappresentazione: mirano a uno status che le neutralizzi, e in questo processo si gonfiano e diventano meta-banalità, banalità al quadrato. La rappresentazione, l’atto del rappresentare e del rappresentarsi è il processo di cottura previsto dalla ricetta del film (le banalità sono gli ingredienti): le modalità di rappresentazione sono, a loro volta, luoghi comuni della cultura americana, banalità culturali. L’attore hollywoodiano in ribasso tenta un riscatto e cosa sceglie? Ovviamente Broadway e ovviamente Raymond Carver, che è quel tipo di icona intellettuale accessibile all’americano medio-alto, e che riesce a farlo sentire intelligente. New York stessa, che si “sente” in ogni istante del film, è un luogo comune della rappresentazione: un luogo dove ci si sporge da una balconata per eccitare l’adrenalina, luogo fittizio quanto i suoi teatri, nevrosi conclamata e dunque neutralizzata. Cosa beve il critico del NYT mentre scrive, sul bancone del bar, le proprie recensioni velenose? Martini con tanto di oliva. E la recensione è scritta su un bloc-notes, non al computer… Sono tutte spie dei luoghi comuni in cui si fa coincidere uno status culturale rispettabile: banalità che invera le banalità. Più tutte le altre banalità dell’oggi, gli account di Twitter, i video virali; ma anche, ed altrettanto banale, l’irrisione di quelle attraverso lo snobismo della cultura (la cultura di chi cita Carver, non la cultura di chi cita, poniamo, Góngora y Argote)…

E qui comincia un gioco di scatole concentriche assolutamente vertiginoso (dal camerino alle quinte del teatro, da esse al palcoscenico, dal pubblico delle preview al pubblico della prima, dall’incidente al tentativo di suicidio, da NYC alla presunta nobiltà dello spirito di chi vi primeggia, dall’europeggiare snob dell’East Coast alla magniloquenza inconsistente della West Coast, dal training autogeno ai poteri sovrannaturali, e naturalmente, più evidente e… banale di tutte, dalla scena teatrale alla cosiddetta vita vera) che coinvolge una meditazione sul lessico, lo stile, le contrapposizioni linguistiche ingannevoli, la vacuità delle categorie e dei registri: che infatti vengono shakerati da Iñárritu con una potenza straordinaria. Ho visto pochi film, nell’ultimo decennio, capaci di entrare e uscire dagli abiti di scena degli stili (iper-realismo, surrealismo, ritratto psicologico, comicità, melodramma) con tanta perfezione: il tutto in una specie di piano-sequenza unico e inarrestabile, che dura più di due ore.

Solo per questo, il film è un grande tour de force e una continua analisi di sé, a proposito sia dei contenuti sia dei linguaggi adoperati. Ma ciò che lo rende vero e difficile da eludere (l’ho visto tre volte nelle ultime 24 ore) è la domanda sul perché tutto questo processo rappresentativo, banalità che espone le nostre banalità cercando di redimerle, sia necessario. Perché ciascuno di noi deve essere altro da sé, deve trovare un palcoscenico quale che sia per dirsi altra cosa dal vero, perché non bastiamo a noi stessi? Perché recitiamo, tutti e indistintamente? Perché la nostra coazione è il dire al vicino: “Lei non sa chi sono io”?

C’è una brevissima scena, nel film, che mi sembra offrire la chiave di lettura: in un angolo dietro il teatro a Broadway un barbone, probabilmente ubriaco, recita un passo del Macbeth di Shakespeare. Perché è lì? Cosa sta protestando a un non-pubblico di passanti cui dà solo fastidio? Cosa vuole essere? Chi vuole essere? E’, come tutti noi, qualcuno che non si è rassegnato alla sconfitta e che indossa ancora, contro ogni evidenza, una maschera, la maschera dell’attore off-Broadway (in senso letterale!). Non vuole essere un barbone come tanti, vuole recitare la parte di un barbone che recita Shakespeare. Ecco i versi che recita:

Life’s but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more. It is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.

Tra il proprio essere (del barbone, intendo), il proprio apparire, il contenuto dei versi, il fatto stesso che Shakespeare li abbia scritti, il fatto che che vengano recitati in uno dei miliardi di miliardi di unità temporali e spaziali che affollano la stessa storia dell’umanità (a propria volta un frammento casuale del buio cosmo) si verifica un corto circuito che rende impossibile afferrarsi ad alcunché. Se la vita non significa nulla, perché mai ci troviamo a dover recitare il fatto che la vita non significhi nulla?

Questa contraddizione è il vero tema del film, e ciò che lo fa capace di interrogare senza posa la nostra intelligenza. Al fondo, denunciata anche questa volta da una conversazione brevissima fra due personaggi, c’è l’incompatibilità fra due nostri desideri che continuamente confondiamo: il sentirci amati e il sentirci ammirati. Essere ammirati coincide con un’illusoria riserva d’amore che si consuma nella nostra banale fatica di rappresentarci, e in questo senso il titolo di Carver, What We Talk About When We Talk About Love, segna il film da capo a fondo aprendovi chiavi di lettura e livelli di cognizione molteplici, a mio parere in modo geniale.

Se è vero che l’individualità si brucia in questo processo di contraddizione, l’ultimissima scena del film è un piccolo capolavoro: la persona che Sam cerca con gli occhi, in alto e in basso, letteralmente non ha più un dove, un palcoscenico, un ubi consistam. E’, al contempo, in alto e in basso, e in nessun luogo: la sua identità si è volatilizzata. In alto e in basso stanno due forme rappresentative parimenti banali, parimenti prive di senso, che lo sguardo di Sam guarda con orrore ma finalmente accetta, per un istante di verità fra una recita e l’altra. Non so se sia un “bel film” né mi interessa (a parte il fatto che un film dove recita Naomi Watts è, per ciò stesso, un film bellissimo): è sicuramente il film più complesso e quello che mi ha fatto più pensare, visto negli ultimi anni.