Francesco Maria Colombo

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Roma - Francesco Maria Colombo
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Roma

Si sentono i tuoni qui a Roma, è quasi mezzanotte e dalle finestre della mia stanza le cime degli alberi nel parco di Villa Borghese si flettono come la scia di una ciminiera nella sera color cobalto. Questi giorni sono stati una ridda di incontri, fotografie, teatri, salotti, nomi famosi che ho sentito nominare per la prima volta (il più recente film italiano che ho mai visto credo sia di Antonioni) e che sono diventati volti, gesti, rossori, sudori, pose, pudicizie e disvelamenti; e ancora serate incantevoli con whiskey sour che scivola per la gola di poetesse lesbiche oltreché della mia, e collezionisti filigranati e canuti dalla volontà fortissima e cognizione di ogni cosa; o attrici con le quali prendo una spremuta di pompelmo e scopro che solo io ne ignoro la carriera ed i gossip, e tutti mi guardano come un animale raro perché scherzo con loro. E mille altre cose, le quinte da Bibbiena di piazza Sant’Ignazio, il colore scuro e stagionato della pietra a palazzo Doria Pamphili quando prende a piovere e i gelsomini spremono il loro profumo; e i tanti che vedo per la prima volta e i non pochi che forse non vedrò più…

Dove sono io? L’avvertimento di me stesso è forse più sottile e labile perché qui la vita è uno smalto iridescente, o perché le vanità (mai l’avrei creduto) si sfanno da sole. So, però, che il mio cuore vive, che è sopravvenuta un’allegria possibile solo ai sopravvissuti di molti naufragi, a chi ha confidenza col dolore da sempre. So che ho meno paura, che sto imparando a riconoscermi nonostante tutto. Ho fatto tante cose nella vita, apparentemente inconciliabili: forse le ho fatte tutte male o non bene, ma non ho mai lasciato nulla di intentato e ogni cosa che ho desiderato davvero (come solo riesce alla volontà di chi nasce più fragile) l’ho non solo avuta, ma vissuta. Ho vissuto, e avuto, tutte le donne che ho desiderato davvero. Ho vissuto, e avuto, e perso, e riconquistato, tutta la bellezza che volevo dalla vita. E sempre con un piede sul filo e l’altro sospeso nel vuoto: e con cadute e convalescenze e grandi tenebre, ma anche con il traboccare di vita che è il contrappeso di chi patisce il male oscuro.

Anche stasera, a cena con la donna che amo, mi sono innamorato da capo, come ogni giorno con lei mi accade (a volte telefono alla sua segreteria telefonica solo per sentire la sua voce). Eppure il cuore si accende di qua e di là, vede nudità smaglianti sotto le stoffe, riconosce la bellezza e il desiderio al primo colpo e non è più lui perché comincia a gioire e a smaniare e a soffrire e spesso a far soffrire. E questa è la mia vita, rinuncio alla decifrazione, sento che c’è e che, in questa singolare guisa che è la mia sensibilità, configura il tutto in un modo che è solo mio, ignoto a me stesso ma vivido sotto quel che si vede, una scossa nervosa, una motilità a fior di pelle cui non so rinunciare perché altrimenti non sarei. Ora tutto si calma. Siamo arrivati a mezzanotte e fra poco leggerò Limonov di Carrère per un paio d’ore, e se chiudo gli occhi vedo il corpo nudo che ho avuto di fronte due giorni fa, e soprattutto lo sguardo nudo da quel corpo nudo scoccato, davanti al quale c’era l’altro sguardo, il mio.