Francesco Maria Colombo

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Somewhere Over the Rainbow - Francesco Maria Colombo
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Somewhere Over the Rainbow

Leggo il mio diario di 5 anni fa: 9 settembre 2008. Nel frattempo la Rainbow Room ha chiuso i battenti, non esiste più, ed è un altro frammento di realtà disperso nelle stanze oscure della memoria, dove serba intatto e invisibile il suo splendore. Questo è ciò che scrivevo 5 anni fa.

La prima volta che sono salito alla Rainbow Room, sessantacinquesimo piano del Rockefeller Center, ero un adolescente. Ho ancora la fotografia con i miei genitori, il socio in affari americano di mio padre, una segretaria che allora avrà avuto 30 anni (oggi, dunque, ne ha più di 60): ero un ragazzo magro con una gran massa di capelli, e sorridevo nel mio blazer bleu con una cravatta nuova. Quella sera capii di essermi innamorato di tre cose: di New York, del Novecento, della coincidenza fra stile, lusso e sesso.

Non avevo mai visto nulla di simile: le cromature perfette degli arredi art déco, i barman con la nuca rasa e gli shaker scintillanti, l’orchestra in bianchi smoking sciallati che suonava gli hits di Carmen Miranda, la grande volta a confetto sospesa sulla pista da ballo, le lampade di Erté, le luci!! (le luci azzurre!! le luci fucsia!!), le coppe d’argento poggiate sul ghiaccio tritato, con le alzate di gamberi e caviale, i caratteri anni trenta del menu stampato, l’atmosfera, l’ebbrezza dei primi calici di champagne permessimi (ma da quando avevo 9 anni mi ubriacavo di nascosto), il brusio in inglese, che è sempre stata la lingua che più amo. E le grandi vetrate che davano, da ogni lato, sull’infinito Mondrian cristallino di New York, sul boogie-woogie dei grattacieli e del neon, sul crepitare silenzioso, là, lontano, dell’Hudson River, sulla macchia oscura e dormiente del Central Park. Capii allora che non esiste al mondo niente di più bello, di più mozzafiato, di più vicino a far schiantare il cuore del paesaggio notturno di New York, delle alte sagome infittite che le luci rendono leggerissime, scivolose filigrane. Capii perché a New York Truman Capote ha dedicato parole indimenticabili: “E’ un mito, la città, le stanze e le finestre, le strade che sputano vapore; per ognuno, per tutti, un mito diverso, testa d’idolo dagli occhi di semaforo che ammiccano verde tenero, rosso cinico. Questa isola che galleggia su acqua di fiume come un iceberg di brillanti”… E capii come sull’isola si fosse stipato e accumulato e rastremato in una definizione perfetta tutto lo stile del Novecento, di questo che è per me l’unico vero grand- siècle, il più spietato e il più elegante, il secolo della Garbo e di Fred Astaire, del charleston e di Cole Porter, di Dorothy Parker e di Andy Warhol; ma anche il secolo delle emigrazioni, della vita da ricominciare, del riscatto e del sogno, della terra promessa. Sentivo che tutto questo era la stessa cosa di questa strana città che non ho mai smesso di amare.

Ero un ragazzo magro ossessionato dal sesso, e intorno a me, su quella nuvola di suoni blu e di radiche lucide e di specchi fumés, si muovevano lente e flessuose certe sublimi entraîneuses in lamé argentato e tacchi a spillo, abbracciate a magnati in doppiopetto e sigaro (oggi non si può più fumare alla Rainbow Room! tutto è finito!), uomini freddi, inesorabili, spaventosamente corretti, settantenni con le guance cascanti e un velo di forfora sul cashmere gessato, l’anello al mignolo e troppi scheletri nell’armadio. E quelle donne dai capelli vaporosi (1981!), con gli sguardi obliqui e distratti, le bocche rosse e le dita lunghissime, esperte di ogni vizio per il puro cinismo del premio in danaro, erano per me una promessa di felicità senza nome, uno sporco e voluttuoso paradiso.

Tante volte, da allora, sono salito alla Rainbow Room. Il ragazzo magro è poi diventato un uomo complesso, difficile, esigente, dai percorsi accidentati, si è sposato, ha avuto tante relazioni, ha vissuto a lungo in quella città che da allora lo chiamava, ha cambiato lavoro più volte, ha conosciuto ricchezza e privazione, successo e malattia. Ha vissuto, vissuto tanto. A quarantatré anni sono ancora ossessionato dalle donne, considero ancora il Novecento come un secolo impareggiabile, e non sono capace di guardare le luci di New York dall’alto, quando viene la sera, senza un groppo in gola di felicità e malinconia. Alla Rainbow Room sono salito ancora la settimana scorsa, per un drink al tramonto: l’ora in cui l’alone caldo del pomeriggio si scioglie in una volatile foschia, e dai mille angoli e dai mille strati della città spuntano le lucciole colorate di quello che è ancora per me, nonostante tutto, il panorama più bello del mondo.

Cipriani, che ha preso in mano la storica sala, fa ovviamente un Bellini esemplare, e con il calice in mano, sorridendo, ho guardato fuori dalle meravigliose finestre verticali guardando in realtà dentro me stesso: ritrovando la stratificazione (necessaria o contraddittoria, non l’ho mai capito) di quel che ho vissuto, le stagioni dei nostri amori, i destini di chi mi ha accompagnato, la strana e un po’ turbata sensazione di essere me (quell‘uomo, quel corpo, quel signore che sorseggia il suo Bellini) in un mondo più grande di me, e che tuttavia esiste, in quella foggia, solo perché io lo percepisco e lo rielaboro in una forma che non è mai esistita prima, e che morirà con me. A quarantatré anni so sempre meno dove vado, ma so sempre di più chi sono. Di fianco a me, con il calice di Bellini fra le dita sottili e laccate, M. mi sorride mentre posa il diario dei nostri giorni americani. Non lo sappiamo ancora ma fra poco andremo a cena a City Hall (ostriche! nos amour!), ci ubriacheremo, ci stringeremo sul taxi coi finestrini abbassati, finiremo la nottata in quel che non è un gioco, non è nemmeno solo sesso, o solo l’ebbrezza di due erotomani che hanno sofferto troppo. E non è il nostro eterno tenerci all’erta, ferirci, farci male, disperarci di noi stessi e poi ritrovare una tenerezza smarrita. E’ invece la nostra querula melodia amorosa che non capirà nessun altro, è la promessa dell’ultimo abbandono, l’epifania della verità, il dolore tenuto in grembo come l’unico figlio che possiamo avere.

Si accendono e guizzano le gemme colorate: nessuna serata è vivida e vivace e vibrante come quella di New York. Ah com’è vero che la casa, la Heimat, il luogo che ci appartiene e al quale apparteniamo, non è quello dal quale si viene, ma quello al quale siamo destinati…

(Nella foto, veglione di Capodanno alla Rainbow Room, 1935)